LA RIVOLUZIONE UNGHERESE DEI CONSIGLI OPERAI
Oggi l'Ungheria, sessant'anni dopo il '56, è dominata da formazioni di destra di governo e di un'opposizione fascista di massa, mentre la classe operaia è priva di una propria organizzazione di classe adeguata allo scontro contro la borghesia nel paese magiaro.
Questa situazione è frutto anche della sconfitta della rivoluzione politica dei giovani e dei lavoratori ungheresi ad opera della burocrazia stalinista. La stessa burocrazia che sarà artefice della restaurazione capitalista nel '89.
La propaganda borghese falsificando la storia ha interesse a far coincidere stalinismo e marxismo. Questo scritto del grande storico Brouè ci introduce alla storia di uno dei tanti crimini dello stalinismo contro il marxismo e la classe operaia.
I. Rivoluzione a Budapest
Il 20 e 21 ottobre 1956 i lavoratori polacchi,
mobilitati all’interno delle loro fabbriche, si preparano a resistere alla
minaccia militare russa. La sera del 21 Radio-Varsavia proclama la vittoria
della “Primavera d’ottobre”. Mosca ha ceduto. Il suo sgherro Rokossowsky è
stato eliminato dal Politburo e diventa segretario il veterano Gomulka, gettato
in prigione da Stalin. I lavoratori polacchi festeggiano in un clima di gioia
la loro vittoria.
I lavoratori e la gioventù ungherese vengono a
conoscenza di questa grande notizia. Lottano già da mesi. Gli intellettuali
hanno preso la parola per primi: hanno rivendicato libertà nell’arte e, di
fronte all’impatto entusiasmante che si è prodotto, hanno parlato di libertà
tout court. La gioventù li ha acclamati. “Non sono stato io ad aver spinto la
gioventù verso la libertà”, dichiarerà lo scrittore comunista Gyula Hay, “ma è
stata lei a spingermi … Io criticavo gli eccessi della burocrazia, i privilegi,
le distorsioni, e più andavo avanti più sentivo di essere assecondato da
un’ondata di sentimenti e di affetto … Si orientava verso di noi, scrittori, un
desiderio irrefrenabile di libertà.”[1] Gli scrittori comunisti hanno formulato
le rivendicazioni dei giovani. “È ora di finirla con questo regime di gendarmi
e di burocrati”, ha proclamato Tibor Déry.[2] Gyula Hajdu, militante comunista,
74 anni, 50 anni di militanza, ha messo a nudo i burocrati: “Come potrebbero
mai sapere quello che succede i dirigenti comunisti? Non vivono mai tra i
lavoratori e la gente del popolo, non li incontrano sull’autobus perché tutti
posseggono la loro auto, non li incontrano nei negozi o al mercato perché
usufruiscono di propri magazzini speciali, non li incontrano all’ospedale
perché dispongono di sanatori particolari.”[3] La giovane giornalista Judith
Mariassy risponde con fierezza ai burocrati che l’hanno redarguita: “La
vergogna non sta nel parlare di questi magazzini di lusso e di queste
case circondate dal filo spinato. La vergogna è che questi negozi e queste case
esistano. Abolite i privilegi e non ne parleremo più.”[4]
Al circolo Petofi, tribuna di discussione
creata alla fine del 1955 dall’organizzazione della gioventù (Disz), alcuni
grandi dibattiti hanno permesso di porre pubblicamente i problemi politici che
toccano tutti gli ungheresi e specialmente la gioventù, utilizzando i risultati
del XX congresso del Pcus in cui Krusciov, il 23 febbraio 1956, ha esposto il
noto “rapporto segreto”: si inizia con un dibattito sull’economia marxista in
marzo, sulla scienza storica e la filosofia marxista a maggio e a giugno, un
incontro dei giovani coi vecchi militanti comunisti dell’illegalità usciti in
buona parte dalle prigioni di Stalin e Rakosi, il 18 giugno, dibattiti sulla
stampa e l’informazione il 28 giugno … dove sono stati coinvolti migliaia di
partecipanti. In molti dibattiti il semplice contatto tra militanti di origini
sociali, generazione ed esperienza differenti è sufficiente per far emergere la
realtà sociale, il castello di menzogne del presunto socialismo staliniano. Il
18 giugno la signora Rajk, vedova del dirigente comunista assassinato nel 1949
come “titista” e “agente dell’imperialismo” dopo un processo costruito da
Rakosi per ordine di Stalin, indicando i burocrati che siedono alla tribuna
esclama: “Non soltanto avete ucciso mio marito, ma avete anche ucciso il senso
della decenza in questo paese. Avete distrutto da cima a fondo la vita
politica, economica e morale dell’Ungheria. Non si possono riabilitare gli
assassini: bisogna punirli!” Dopo l’intervento di Gyula Hajdu decine di
migliaia di giovani iniziano a dire: “I dirigenti devono andarsene.” Agli occhi
degli intellettuali e dei comunisti che animano il circolo Petofi un uomo
incarna il cambiamento di politica, la “riforma” del partito: Imre Nagy,
veterano del partito, per lungo tempo in URSS ma legato alla tendenza
“bukhariniana” e che, dopo il suo breve periodo al potere nel 1953, consolida
nel partito e nei circoli di simpatizzanti le speranze degli avversari di
Rakosi. Secondo il filosofo Gyorgy Lukacs, per gli animatori del movimento
chiamato “comunista liberale” o del “comunismo nazionale”, per i comunisti
imprigionati con l’accusa di titismo ai tempi di Stalin e da poco riabilitati,
gli Janos Kadar e i Geza Losonczy, e anche per i giovani che danno loro fiducia,
si tratta di cambiare la direzione del partito, sostituendo il gruppo
Rakosi-Gero con quello attorno a Nagy: sarà allora possibile mettersi in marcia
verso il socialismo autentico, liberato dalle scorie dello stalinismo.
La “destalinizzazione” ha decuplicato le
speranze. Ha creato le condizioni perché potessero esprimersi alla luce del
giorno. I risultati sono però asfittici. Certo Rakosi è stato allontanato, ma
Gero è rimasto segretario generale del partito. Gero, l’uomo della Gpu.[5] Rajk
è stato riabilitato ma dai suoi assassini, i quali hanno pure portato la sua
bara sulle spalle. Déry e Tardos sono stati espulsi dal partito il 30 giugno
1956, ben dopo il rapporto Krusciov. Il tetro Farkas e suo figlio, “il
torturatore”, sono liberi. Gero è andato a Belgrado per chiedere a Tito un
certificato di “destalinizzazione”. Il “titoista” Kadar lo ha accompagnato. Non
è una destalinizzazione di tal genere quella che cercano i giovani e i loro
portavoce, gli scrittori comunisti. Vogliono una destalinizzazione autentica,
vogliono finirla con gendarmi e burocrati, vogliono un socialismo veramente
democratico. Sanno anche, da qualche tempo, di avere al proprio fianco i
lavoratori, più lenti a mettersi in movimento ma che andranno fino in fondo.
Nella sede di Irodalmi Ujsag, il giornale dell’Unione degli scrittori, il
tornitore Laszlo Pal dichiara, in nome dei 40mila operai di Csepel,
Csepel-la-rossa: “Finora siamo rimasti in silenzio. Durante questi tempi
tragici abbiamo imparato a essere silenziosi e ad andare avanti con molta
cautela. In passato bastava una piccola osservazione perché l’operaio fosse
punito e perdesse il suo pane quotidiano … Dopo il XX congresso le porte si
sono aperte. Tuttavia, finora, parliamo solo di responsabili minori. Ci
chiediamo se non sia giunta l’ora di gettare piena luce sui primi e veri
colpevoli. Vogliamo sapere la verità. Non siamo assetati di sangue ma di
verità. Siate sicuri, parleremo anche noi.”[6]
Così gli operai uniscono la loro forza
tranquilla al movimento degli intellettuali. Csepel ha appena dato la sua
cauzione a Irodalmi Ujzag, proprio come a Varsavia la fabbrica di Zeran l’ha
portata alla redazione di Po Prostu. In Polonia questa congiunzione ha deciso
la vittoria. Ma a Budapest c’è Gero e dietro di lui la polizia politica, l’Avh.
I burocrati del Cremlino tirano le somme. Hanno appena subito una sconfitta e
sono, come sempre, pronti a ogni tipo di crimine per evitare una seconda
vittoria rivoluzionaria che lascerebbe alla burocrazia i giorni contati.
21 e 22 ottobre
Il 21 gli studenti del Politecnico di Budapest
organizzano un’assemblea. Come a Varsavia gli studenti delle classi superiori
dell’insegnamento tecnico sono l’avanguardia del movimento rivoluzionario.
Chiedono la libertà di stampa, l’abolizione della pena di morte, l’abolizione
dei corsi obbligatori di “marxismo”, un processo pubblico per Farkas. Come i
loro compagni di Szeged, che, in più, hanno richiesto la riduzione degli alti
salari, quelli dei burocrati, minacciano di sostenere il proprio programma con
manifestazioni di piazza se le loro domande non verranno soddisfatte.[7]
Nella città industriale di Gyor si tiene
un’assemblea pubblica che il giornale locale del Pc ungherese descrive come “il
primo dibattito pubblico del tutto libero”. Gyula Hay cita gli esempi cinese e
jugoslavo, reclama la “chiusura delle basi sovietiche in Ungheria” come parte
integrante di una politica di indipendenza nazionale, afferma che la stampa è
diretta “in maniera inetta” e dipinge l’espulsione di Déry e Tardos come un
atto intimidatorio destinato a preparare il terreno a nuove misure contro lo
stesso Ime Nagy. duemila persone lo acclamano.[8]Il 22 all’università Lorand
Eotvos di Budapest c’è un’assemblea degli studenti del Politecnico. Alcuni
giorni prima, i meeting all’università politecnica di Varsavia sono stati il
cuore della rivoluzione. È là che sono intervenuti i rivoluzionari di Zeran. È
là che la gioventù rivoluzionaria di Varsavia ha dato il suo appoggio a
Gomulka. I giovani ungheresi riuniti al Politecnico di Budapest sono ansiosi di
giocare lo stesso ruolo. La riunione è turbolenta. Gli oratori, tra cui si nota
uno studente anziano, Joszef Szilagy, un vecchio comunista amico di Imre Nagy,
reclamano il ritorno al potere di Nagy. Anche la gioventù ungherese cerca il
suo Gomulka. L’obiettivo della gioventù ungherese è una “società socialista
veramente indipendente”; essa pensa di arrivarci attraverso il cambiamento
della direzione del partito che richiede a gran voce. Gli obiettivi immediati sono
fissati in una risoluzione programmatica di sedici punti – i sedici punti della
gioventù – che prova a toccare tutte le rivendicazioni immediate della nazione
ungherese.
“1) Esigiamo il ritiro immediato dall’Ungheria
di tutte le truppe sovietiche, in conformità col trattato di pace siglato nel
1947 tra URSS e Ungheria.
2) Esigiamo l’elezione a scrutinio segreto di
tutti i dirigenti del partito, a ogni livello, dal basso verso l’alto, affinché
questi convochino appena possibile un congresso del partito che eleggerà una
nuova direzione centrale.
3) Esigiamo la formazione di un governo
presieduto dal compagno I. Nagy e che siano sostituiti tutti i dirigenti
criminali dell’epoca stalino-rakosista.
4) Esigiamo dibattiti pubblici sul caso Farkas,
Mihaly e banda, e anche il loro rientro nel nostro paese e un giudizio davanti
al tribunale del popolo per Matyas Rakosi, principale responsabile del
fallimento del paese e dei crimini commessi nell’ultimo periodo.
5) Esigiamo l’elezione a scrutinio segreto e
uguale, con la partecipazione di più partiti, di una nuova Assemblea nazionale.
Esigiamo che sia garantito il diritto di sciopero per i lavoratori.
6) Esigiamo un nuovo accordo e la revisione
delle relazioni culturali, economiche e politiche jugoslavo-ungheresi e sovietico-ungheresi,
sulla base del principio di non intervento reciproco nelle questioni interne e
di una piena uguaglianza economica e politica.
7) Esigiamo la riorganizzazione di tutta la
vita economica ungherese con la partecipazione dei nostri specialisti. Esigiamo
la riorganizzazione di tutto il sistema economico sulla base del piano, in modo
da utilizzare le risorse nazionali per gli interessi vitali del nostro popolo.
8) Esigiamo che siano resi pubblici i trattati
riguardanti il commercio con l’estero e i dati reali sull’entità dei danni di
guerra. Esigiamo una informazione pubblica e completa sulle concessioni
proposte ai russi, sullo sfruttamento e lo stoccaggio dell’uranio del nostro
paese. Esigiamo che l’Ungheria possa fissare liberamente, in moneta forte, il
prezzo di vendita del suo uranio sulla base del prezzo vigente sul mercato
mondiale.
9) Esigiamo la revisione completa delle norme
sui ritmi di lavoro nell’industria, come anche il soddisfacimento delle
rivendicazioni salariali dei lavoratori manuali e intellettuali. I lavoratori
pretendono che sia fissato un minimo vitale.
10) Esigiamo una nuova organizzazione del
sistema delle consegne obbligatorie e l’utilizzo razionale dei prodotti
agricoli. Esigiamo un trattamento paritario per i piccoli contadini lavoratori.
11) Esigiamo la revisione davanti a Tribunali,
realmente indipendenti, di tutti i processi economici e politici e la
riabilitazione di tutti gli innocenti condannati. Esigiamo il trasferimento
immediato in Ungheria di tutti i cittadini e i prigionieri trasferiti
coattivamente in URSS, compresi i condannati.
12) Esigiamo una radio libera, la completa
libertà di stampa, di parola e di opinione e l’uscita di un nuovo quotidiano a
grande tiratura, organo della Mefesz [l’organizzazione indipendente degli
studenti che si era appena costituita, NdT].
13) Esigiamo che la statua di Stalin, simbolo
dell’oppressione politica e della dittatura stalinista, sia abbattuta al più
presto e che al suo posto sia eretto un monumento ai martiri e agli eroi della
lotta per la libertà del 1848-1849.
14) Al posto di simboli del tutto estranei al
popolo ungherese, esigiamo il ritorno alle vecchie insegne di Kossuth. Esigiamo
una nuova uniforme degna delle tradizioni nazionali della Honved [esercito
ungherese, NdT]. Esigiamo che il 5 maggio, anniversario della proclamazione
dell’indipendenza nel 1848, sia festa nazionale e giorno festivo e che il 6
ottobre, giorno dei funerali solenni di Rajk, sia giorno di lutto e congedo
scolastico.
15) La gioventù delle università politecniche
di Budapest proclama con entusiasmo unanime la sua solidarietà completa con la
classe operaia e la gioventù di Varsavia e della Polonia nella sua relazione
col movimento polacco per l’indipendenza.
16) Gli studenti dell’università politecnica
delle costruzioni costruiscono da subito le organizzazioni locali della Mefesz
e hanno altresì deciso di convocare a Budapest per sabato 27 ottobre un
Parlamento della gioventù in cui tutti i giovani del paese saranno
rappresentati da propri delegati.”
La risoluzione è inviata al partito e al
governo. Gli studenti ne chiedono la pubblicazione sulla stampa e la lettura
alla radio. In seguito manifestano la “loro simpatia fraterna ai compagni
polacchi in lotta per la sovranità e la liberazione.”[9] Come a Varsavia,
dove l’assemblea del Politecnico del 19 ottobre ha parlato a nome di tutta la
gioventù rivoluzionaria, gli studenti ungheresi con questo gesto sottolineano
la carica di internazionalismo proletario che anima questi giovani. Professori
e allievi dell’Accademia militare “Miklos Zrinyi”, scuola di formazione per
ufficiali, adottano i 16 punti. Col medesimo spirito di simpatia militante
verso la rivoluzione polacca, il circolo Petofi lancia per l’indomani, 23
ottobre, la parola d’ordine di una manifestazione pubblica in solidarietà con
la Polonia. Il circolo vota una risoluzione in cui chiede la convocazione
urgente di un Comitato centrale, l’esclusione di Rakosi dal CC e dall’Assemblea
nazionale, un processo pubblico per Farkas, l’appello a Imre Nagy, reintegrato
il 14 ottobre nel partito, perché diriga il paese e un cambiamento complessivo
della politica governativa per mezzo di una informazione completa e di un
dibattito pubblico.
La manifestazione pacifica del
23 ottobre
L’indomani l’appello del circolo Petofi è
riprodotto sulla stampa. Il fatto contribuisce al tempo stesso alla
mobilitazione e all’ottimismo, dimostrando che il cambiamento è possibile. Nel
frattempo Imre Nagy, rientrato in fretta e furia dalle rive del lago Balaton
dove si stava riposando, apprende dai suoi amici il corso degli avvenimenti:
pressato da Miklos Gimes perché prenda la testa della manifestazione onde
evitare il peggio, si tira indietro con ostinazione invocando i rischi di una
provocazione organizzata contro di lui da Gero. Alle 13 il ministro degli
Interni annuncia che la manifestazione è vietata. Il suo portavoce si fa
fischiare dagli studenti. Alle 14.30 il divieto è annullato quando si viene a
sapere della decisione della Gioventù comunista di aderire alla manifestazione
in solidarietà con i lavoratori polacchi. Il divieto non ha indebolito la
manifestazione: in ogni caso, i giovani erano decisi a sfidare il divieto. Il
comitato centrale della Gioventù comunista (Disz) l’ha affermato con nettezza:
“Chi chiede che la nostra gioventù esprima il suo punto di vista con prudenza e
cautela ignora lo sviluppo storico e l’autentica posizione della gioventù
ungherese.”[10]
La manifestazione inizia alle 15. Il suo
iniziale divieto, più volte ripetuto alla radio, e poi la decisione improvvisa
di autorizzarla, hanno prodotto uno choc. Tutta la popolazione ha sentito
l’esitazione dei dirigenti e considera la decisione finale delle autorità come
un cedimento davanti alla forza del movimento. Tutta Budapest è in piazza. In
testa, alcuni giovani portano immensi ritratti di Lenin.[11] Ci sono molte
bandiere ungheresi e una sola bandiera rossa, quella degli allievi
dell’Istituto Lenin che scandiscono gli stessi slogan dei loro compagni: “Nagy
al potere”, “Via i russi”, “Processo per Rakosi”. Gli studenti hanno prodotto
striscioni enormi: “Non ci fermiamo a metà strada: liquidiamo lo stalinismo”,
“Vogliamo nuovi dirigenti: abbiamo fiducia in Nagy”, “Indipendenza e libertà”
e, ovviamente” “Viva i polacchi”. Si canta la Marsigliese, per gli ungheresi
canto rivoluzionario, e viene scandito il poema di Sandor Petofi “La libertà o
la morte”. A piedi o dalle piattaforme degli autobus, gli studenti diffondono i
volantini ciclostilati clandestinamente che riproducono la risoluzione del
giorno prima. Ai piedi della statua a Petofi si declama un suo poema, si legge
la risoluzione dell’università dopodiché un giovane, solennemente, scrive la
data 23 ottobre 1956 sul basamento della statua. Ai piedi della statua dedicata
al generale Bem, eroe polacco dell’indipendenza ungherese, tiene un discorso
Peter Veres, presidente dell’Unione degli scrittori. Si canta. Sono le 17.45 e
i manifestanti iniziano a defluire. Si potrebbe pensare che sia tutto finito.
In realtà, tutto comincia. Uffici e fabbriche si svuotano. Impiegati e operai
si uniscono agli studenti. “Martedì noi abbiamo lavorato”, racconta un giovane
elettricista di Ujpest, “ma mentre lavoravamo parlavamo. Abbiamo parlato di
salari e dei risultati della riunione degli scrittori. Avevamo delle copie
della loro dichiarazione e sapevamo quello che intendevano dire quando
affermavano che non poteva continuare così. Non riuscivamo più a vivere del
nostro lavoro. Finito il lavoro abbiamo visto gli studenti che manifestavano e
li abbiamo raggiunti.”[12]
Allora operai, impiegati e studenti riempiono
le strade. Gli autobus si fermano. Tutta Budapest è in strada. Tutta Budapest
dice che la misura è colma. Ci vuole un cambiamento. Si formano dei gruppi, si
mettono in piedi piccoli cortei. Ci si sparpaglia ovunque. Non c’è una
direzione ma una volontà comune di manifestare, una unanimità contro i
dirigenti stalinisti e i loro padroni della burocrazia russa. Alla fine, la
massa si dirige verso il Parlamento scandendo ripetutamente “Nagy! Nagy!”.
Davanti al Parlamento, la folla è impaziente, sempre più numerosa, scalpita
fremente e si irrita. Dopo un po’ viene annunciato che Gero è rientrato da
Belgrado e parlerà alla popolazione dalla radio. È il momento tanto atteso
dalla maggioranza dei manifestanti. Per tutta la giornata si sono visti in
mezzo a loro reporter e fotografi. Non ci sono stati incidenti con la polizia.
Gero parlerà. Gero cederà, annunciando una riunione del Comitato centrale che
designerà Nagy alla testa del governo. I lavoratori di Budapest aspettano che
Gero sancisca la loro vittoria chinandosi davanti alla loro volontà. Le
manifestazioni di piazza avranno imposto il cambiamento nella direzione del Pc:
i comunisti liberali prenderanno in mano la situazione.
Così, alle 20, Gero parla: parla da burocrate
quale egli è, servile verso i suoi padroni, arrogante coi lavoratori. Certo
riconosce che il partito e il governo hanno forse compiuto alcuni errori.
Convoca certo il Comitato centrale ma per il 31 ottobre, otto giorni dopo: tanta
acqua scorrerà sotto i ponti del Danubio. Però, più grave ancora, non si
accontenta di temporeggiare ma minaccia e insulta: “Chi pretende che i nostri
rapporti economici e politici non sono basati sull’uguaglianza mente
spudoratamente.” Il vecchio torturatore dei rivoluzionari di Barcellona afferma
senza indugi che non vuole “mescolarsi alle questioni interne polacche.” Parla
di “canaglie”, di “manifestazioni nazionaliste.” Domanda: “Volete aprire la
porta ai capitalisti?” Conclude affermando che le manifestazioni di piazza “non
fermeranno il partito ed il governo nel perseguimento degli sforzi che
porteranno alla democrazia socialista.”[13] Ha parlato il burocrate, l’uomo di
Mosca: la “destalinizzazione” sarà guidata dagli stalinisti; se i lavoratori
non sono contenti, è che sono controrivoluzionari e gli si risponderà come
conviene. Gli sgherri dell’Avh[14] avrebbero ben presto mostrato concretamente
la natura della sanguinosa risposta di Gero.
L’Avh spara: è l’inizio
dell’insurrezione
Tutta Budapest aveva ascoltato Gero. Tutta
Budapest si sentì insultata dal suo discorso. I lavoratori e gli studenti,
decine di migliaia di giovani e di adulti avevano appena manifestato con
chiarezza la loro volontà, e Gero li aveva insultati. Hanno però il controllo
della strada, lo avvertono e sono intenzionati a mostrarlo e ad approfittarne.
Nagy, di fronte al Parlamento, cerca di pronunciare parole di pacificazione,
promette che agirà per avvicinare la riunione del CC. Uno studente dà una
personale interpretazione della sua tattica: “Non è che un privato cittadino e
ha paura di pronunciarsi sulle nostre rivendicazioni a causa di Gero.”[15] Una
parte dei giovani si erano già recati presso la sede della radio per esigere la
diffusione della risoluzione approvata in Università. Una delegazione esigeva
la lettura dei “sedici punti” e un “microfono in mezzo alla manifestazione” per
consentire al popolo di esprimere le sue idee. Migliaia di manifestanti si
erano diretti alla piazza dove si ergeva la statua gigantesca di Stalin ed
iniziavano ad applicare il loro programma buttandola giù. Siccome la
delegazione – accompagnata da Peter Erdos del circolo Petofi – tarda ad uscire
dal palazzo della Radio, l’ansia si impadronisce dei loro compagni fermi
davanti alla porta: forse i delegati sono stati arrestati?
Il discorso di Gero produce l’effetto dell’olio
gettato sul fuoco, confermando le paure dei più pessimisti. I giovani
manifestanti iniziano a sfondare le porte per liberare i loro compagni. Nella
confusione che si genera partono i primi spari. Gli uomini dell’Avh appostati
nelle vicinanze del palazzo sparano: ci sono tre morti … È un giovane
architetto a parlare, era tra i manifestanti: “Fu il colpo finale. Nella massa
alcuni avevano delle carabine precedentemente prese ad alcuni ufficiali della
Mohosz [“Federazione ungherese dei volontari della difesa”, un’organizzazione
sportiva para-militare sostenuta dal partito, Ndt]. Risposero al fuoco dell’Avh
come meglio poterono. Fu allora che molti camion e carri armati si mossero da
Buda ma né gli ufficiali né i soldati spararono sul popolo. Non fu diramato
nessun ordine e i militari restarono sui camion. Cominciarono a far scivolare
le loro armi nelle mani che si protendevano verso di loro.” Più tardi, nella
serata, mentre i combattimenti continuano, due ufficiali dell’esercito
ungherese smontano da un carro e, nell’intenzione chiara di interporsi,
avanzano disarmati verso l’immobile della Radio. Sono abbattuti dall’Avh.
Le fucilate della Radio sono la scintilla della
battaglia generale. I lavoratori si armano: le carabine della Mohosz e le armi
prelevate dalle armerie servono come capitale di partenza. Si dirigono davanti
alle caserme. Come a Barcellona nel 1936, soldati aprono le porte degli
arsenali e dei magazzini oppure lanciano fucili e mitragliatrici dalle
finestre. Altri portano in strada camion pieni di armi e munizioni e le
distribuiscono. Altrove, come alla caserma Hadik, i gruppi di operai che
vogliono armarsi trovano una resistenza soltanto formale. Si spara dappertutto
nelle strade di Budapest e compaiono le prime barricate. Finora l’esercito è
rimasto neutrale ma ora il governo gli dà l’ordine di intervenire contro gli
insorti. Il racconto che segue, ripreso da un testimone inglese, descrive il
momento altamente drammatico in cui un’unità dell’esercito passa nelle file
della rivoluzione: “Le truppe della Honvédség.[16] Una donna che canta, uno
sconosciuto che alza una bandiera, un esercito che si squaglia sotto il fuoco
della rivoluzione, operai e contadini in divisa si uniscono ai loro fratelli di
classe … avevano preso posizione in un punto strategico, un incrocio. Una massa
d’insorti si era fermata a circa sessanta metri da quel punto e un dialogo si
aprì tra loro e un ufficiale – scambio di idee che non era fatto di insulti ma
di argomentazioni politiche. L’ufficiale, assicurando loro che le
rivendicazioni avrebbero ottenuto soddisfazione, li invitava ripetutamente a
tornare nelle loro case. Era evidente che avrebbe fatto di tutto per evitare
l’uso della forza. Nel lungo silenzio durante la discussione si udì la voce di
una donna che intonava l’inno nazionale di Kossuth. L’effetto fu fulmineo.
Tutta la massa, operai, tassisti, studenti e ragazzi si tolsero il cappello e
si misero in ginocchio: da un istante all’altro tutti si erano messi a cantare
l’inno con la donna. I soldati erano anch’essi commossi e terribilmente tesi.
Qualcuno alzò la bandiera tricolore ungherese da cui era stata strappata la
stella rossa. I soldati abbandonarono i ranghi e corsero ad unirsi ai manifestanti.”
Mentre i combattimenti si inaspriscono in tutta
la città, i delegati studenteschi, incontratisi dopo il discorso di Gero,
decidono di costituirsi in organismo permanente. Si forma il Comitato
rivoluzionario degli studenti presieduto da un militante comunista, Ferenc
Merey, professore di psicologia. Il comitato installa il suo quartier generale
alla facoltà di lettere e inizia a funzionare, centralizzando le informazioni,
l’attività dei gruppi armati, l’azione dei gruppi che contattano i soldati,
diffondendo i volantini, facendo appello al popolo perché si unisca alla
rivoluzione e alla lotta armata contro i poliziotti dell’Avh di Gero. Infatti,
contro i giovani e i lavoratori di Budapest, sono rimasti solo i detestati
poliziotti dell’Avh. Verso le 11 Szabad Nep, organo del partito, fa uscire un
volantino per annunciare la riunione del CC e dichiara: “La redazione di Szabad
Nep assicura al partito e al popolo che essa non sosterrà mai quelli che
vogliono rispondere con le fucilate ed il terrore alla voce ed alle richieste
del popolo.”[17] Il comitato centrale delibera. Tutta Budapest si batte.
II. Combattenti per la libertà e consigli operai
Nella notte tra il 23 e il 24, mentre i
rivoluzionari armati attaccano gli Avos dappertutto, il comitato centrale del
Pc delibera. Non sappiamo nulla di preciso sui suoi dibattiti, all’infuori del
fatto che vi si sono opposte due tendenze in merito al modo più efficace per
far tornare l’ordine: attraverso la repressione brutale o per mezzo di alcune
concessioni. Conosciamo soltanto le decisioni adottate, segnate dalla politica
di Gero e dei suoi padroni moscoviti. Poco importa che siano state o meno il frutto
di una telefonata con Krusciov. È certo invece che, comportando la decisione
dell’entrata in scena delle truppe russe per schiacciare l’insurrezione, esse
non possono essere state prese senza l’accordo di Mosca.
L’astuzia della Gpu: Nagy
sostiene l’intervento russo
Mentre i militanti comunisti di Budapest
sparano contro gli Avos, quando solo gli Avos si battono per difendere dalla
gioventù rivoluzionaria il detestato regime di Gero e dei suoi burattinai del
Cremlino, il comitato centrale del partito continua ad essere lo strumento
fidato della Gpu. Quando le masse, armate, si sollevano contro il regime dei
gendarmi e dei burocrati, l’azione dell’organismo “dirigente” del partito
mostra quante illusioni nutrissero nei suoi confronti quei comunisti fiduciosi
che una sua convocazione anticipata avrebbe portato un “cambiamento di linea” e
un “cambiamento di direzione”.
In seguito alla defezione dell’esercito e della
polizia, la grande decisione presa in nottata è l’appello alle truppe russe per
“mantenere l’ordine” e proclamare la legge marziale. I burocrati del Cremlino e
i loro agenti dell’apparato ungherese sono decisi a conservare a ogni costo il
controllo della situazione e ad affogare nel sangue la rivoluzione nascente.
Dalle 4.30 di mattina i blindati sovietici si dirigono verso Budapest di cui
bloccano le uscite. I soldati russi sono stati informati di dover andare a
combattere una “controrivoluzione fascista appoggiata dalle truppe
occidentali”.[18] Gli Avos ricevono rinforzi considerevoli: blindati, artiglieria
e fanteria si riversano nella capitale insorta.
Qualche ora prima il comitato centrale ha
deciso di fare appello a Imre Nagy per formare un nuovo governo: Geza Losonczy,
Ferenc Donath, Gyorgy Lukacs, Zoltan Szanto, tutti seguaci di Nagy, entrano nel
CC. Donath, Nagy, Szanto diventano membri del nuovo Politburo di 11 membri da
cui sono stati allontanati alcuni stalinisti più noti. Ma nulla di fondamentale
è cambiato. Gero mantiene la carica di segretario generale del partito nonché
il controllo dell’apparato. I comunisti oppositori sono semplici ostaggi in
seno alla nuova direzione. Nagy è la copertura all’ombra della quale Gero,
padrone dell’apparato, continua a portare avanti la politica dei burocrati del
Cremlino. Ma c’è di più: il decreto che istituisce la legge marziale e
l’appello alle truppe russe sono decisioni che si suppone siano state prese dal
governo Nagy. Nagy ha le mani legate, legate nel sangue dei lavoratori. È in
suo nome che russi e Avos si apprestano a mitragliare gli insorti che hanno
chiesto e domandano ancora la sua ascesa al potere. La parabola dei sostenitori
della “riforma” del partito si precisa: la burocrazia si serve della loro
popolarità per disorientare e disarmare i rivoluzionari; ostaggi dell’apparato,
portano assieme a esso la responsabilità dei suoi crimini.
Nagy parla
Imre Nagy, che aveva rifiutato di prendere la
parola alla manifestazione della mattina del 23, che aveva rifiutato di parlare
– malgrado l’intervento insistente del suo amico Geza Losonczy – la sera del 23
per lanciare un appello alla calma, questa volta è invitato a parlare dagli
stessi dirigenti, dal comitato centrale. Su richiesta del Politburo, in tarda
serata, ha cercato di arringare i manifestanti che stazionavano davanti al
Parlamento, in piazza Kossuth, prima di recasi al palazzo del comitato centrale
dove è informato della decisione presa nel frattempo a suo riguardo. Quel
palazzo, circondato di carri armati russi, Nagy non lo abbandonerà per diversi
giorni, isolato materialmente non solo dalla realtà, di fronte al movimento
rivoluzionario che deborda, dalla repressione che lo colpisce in suo nome, ma
anche dai suoi amici che riusciranno a riprendere contatto con lui solo alcuni
giorni dopo, mescolandosi alle delegazioni operaie che Nagy sarà autorizzato a
ricevere.
Eppure, nel corso della notte, all’indomani
della sua “nomina”, sulle onde di Radio-Kossuth-Budapest egli si rivolge al
popolo ungherese: “Su ordine del comitato centrale, sono stato nominato
Presidente del consiglio. Ungheresi, amici e compagni, vi parlo in un’ora grave
… posso garantirvi che ho la possibilità di realizzare il mio programma
politico basato sul popolo ungherese guidato dal partito comunista … Sono
Presidente del consiglio e avremo presto la possibilità di realizzare la
democrazia in tutto il paese. Prego tutti gli uomini e le donne e ogni giovane
di non perdere la testa.”[19] La battaglia continua e si estende senza tregua.
La radio lancia appelli impauriti agli operai, agli studenti, ai giovani. Ai
microfoni di Radio-Kossuth passano rappresentanti della Chiesa, dei vecchi partiti
– il “piccolo proprietario” Zoltan Tildy, il socialdemocratico Szakasits –, dei
sindacati. I dirigenti del circolo Petofi dichiarano di non aver voluto il
“bagno di sangue” e chiedono ai giovani di gettare le armi. Il governo promette
un’amnistia completa a chi abbandonerà le armi prima delle ore 14. Poi vengono
concesse nuove scadenze e si alternano promesse e minacce. La radio diffonde
gli appelli delle madri ai figli combattenti, invita ad aprire le finestre
perché gli insorti possano ascoltare dalla strada le promesse che il governo fa
alla radio. Nessuna manovra modifica alcunché. Tutta Budapest si batte.
Quelli che si battono: gli
operai
Le trasmissioni di Budapest su Radio-Kossuth e
Radio Petofi sono significative: il grosso dei combattimenti si svolge attorno
alle fabbriche. I loro nomi tornano in tutti gli appelli e i comunicati
governativi: Csepel, Csepel-la-Rossa, le fabbriche di Ganz, Lang, le fabbriche
“Klement Gottwald”, “Jacques Duclos”, i quartieri di Ujpest, Angyafold. I
quartieri proletari sono i bastioni dell’insurrezione. Come dichiara a un
corrispondente dell’Observer un “combattente della libertà” rifugiato in
Austria: “Gli studenti hanno cominciato la lotta ma, quando si è sviluppata,
non avevano né il numero né la capacità di battersi così duramente come i
giovani operai.”[20] Lasciamo la parola a uno di loro, 21 anni, che racconta le
vicende di mercoledì vissute nella sua fabbrica di Ujpest: “Mercoledì mattina
(24 ottobre) è iniziata la rivolta nella nostra fabbrica. Era spontanea e non
organizzata. Se fosse stata organizzata, l’Avh avrebbe saputo e l’avrebbe
schiacciata prima che esplodesse. I giovani operai hanno rotto il ghiaccio e
gli altri li hanno seguiti … Di solito iniziamo il turno di lavoro alle sette.
Chi di noi viene in treno dai quartieri periferici aspetta l’arrivo degli altri
operai in fabbrica. Appena prima delle sette, un camion carico di giovani
operai armati è arrivato davanti alla porta. Quando uno di loro ha iniziato a
sparare contro la stella rossa al di sopra della fabbrica un membro
dell’amministrazione ha dato l’ordine di chiudere le porte. Eravamo divisi in
due gruppi, quelli all’interno e quelli all’esterno. Noi che eravamo dentro
abbiamo sfondato le porte del locale della Mohosz e preso le carabine. Una
responsabile comunista, una donna, ha cercato di fermarci piazzando una guardia
davanti alle armi. Non poteva funzionare perché tutti – compresi i capireparto
– erano uniti. Siamo usciti dalla fabbrica coi fucili e abbiamo marciato verso
la città. Quando abbiamo iniziato la nostra azione non avevamo contatti con
nessuno. Non avevamo collegamenti con nessuna fabbrica. Però, mentre
avanzavamo, eravamo raggiunti da altri operai, sempre più numerosi, alcuni in
armi. All’angolo di via Rakoczih, uno studente universitario ha cominciato a
organizzarci in piccoli gruppi e a spiegarci le parole d’ordine che bisognava
lanciare.”[21]
Si forgiava così, nelle strade, la fusione dei
giovani combattenti rivoluzionari. Contemporaneamente, il Comitato
rivoluzionario degli studenti, diventato “Comitato rivoluzionario degli
studenti in armi”, si allargava. Un postino del comitato racconta: “All’inizio
era formato da studenti delle scuole di eccellenza e dell’università ma in
seguito vi entrarono soldati e giovani operai. Penso che tutti fossero eletti
da comitati di base, a loro volta espressione di singole organizzazioni di
studenti, operai e soldati.”[22] Pare che nelle prime ore della mattinata
l’Accademia Kossuth, scuola militare con ottocento allievi, si sia unita all’insurrezione,
coi suoi quadri tecnici e le sue armi.
Le fucilate davanti al
Parlamento
Le fucilate in piazza del Parlamento sono state
giovedì. Questo episodio dimostrava ai lavoratori di Budapest ancora esitanti,
con chiarezza e in modo definitivo, che per ottenere la realizzazione delle
loro rivendicazioni non c’era alternativa alla lotta rivoluzionaria armata, e
che deporre le armi sarebbe stato un suicidio a favore di Gero. Migliaia di
operai e studenti disarmati si recarono al Parlamento per esigere la deposizione
di Gero, la liberazione dei loro dirigenti arrestati a partire dal 23 e un
incontro immediato con Imre Nagy. In piazza i giovani accerchiavano i carri
armati russi fraternizzando coi soldati. Gli Avos, nascosti sui tetti del
palazzo del Ministero degli interni, in faccia al Parlamento, aprirono il
fuoco. Anche i blindati iniziarono a sparare; così, i manifestanti si trovarono
presi tra due fuochi e trecento cadaveri restarono sul terreno. Proprio in quel
momento, alla radio, il capo del futuro governo – Nagy senza potere, Nagy
ostaggio dell’apparato, Nagy prigioniero – moltiplicava gli appelli alla calma
e alla resa … Portando sulle spalle i cadaveri dei loro compagni,
brandendo bandiere impregnate del loro sangue, chi riuscì a sfuggire si sparse
in tutta la città al grido di “uccidono gli operai.”[23] Non era più possibile
dubitare, ormai: agli occhi dei giovani rivoluzionari di Budapest era chiaro
che Nagy era senza potere, fosse o meno prigioniero, e altresì che Gero
deteneva il potere reale e, dietro di lui, i Russi, e, non ultimo, che ci si
doveva battere, qualsiasi cosa Nagy affermasse, contro gli Avos e i Russi.
Niente sintetizza meglio questo stato d’animo che il volantino diffuso nel
pomeriggio, dopo il massacro, firmato “Gli studenti e gli operai
rivoluzionari”: “Facciamo appello a tutti gli ungheresi allo sciopero generale.
Finché il governo non soddisfa le nostre rivendicazioni, finché gli assassini
non sono chiamati a rendere conto, risponderemo al governo con lo sciopero
generale. Viva il nuovo governo sotto la direzione di Imre Nagy!”[24] Nello
stesso frangente, in nome del governo, Radio-Kossuth proclamava che lo sciopero
sarebbe stato un atto controrivoluzionario…
In nome del Comitato rivoluzionario degli
studenti sono stampati e diffusi ai soldati sovietici centomila volantini in
lingua russa. Questi volantini dicono ai soldati dell’Armata Rossa che sono
stati chiamati a intervenire contro i lavoratori, i giovani e i soldati
ungheresi, i quali non sono né reazionari né controrivoluzionari né fascisti ma
combattono per il socialismo democratico.
“Non sparate contro di noi, non sparate sui
vostri fratelli di classe!” conclude il volantino.
Nuove concessioni
Di fronte alla nuova fiammata di collera
scatenata dal massacro della piazza del Parlamento, di fronte allo sciopero
generale insurrezionale esteso a tutto il paese, l’apparato decide di
orientarsi a nuove concessioni. La decisione peraltro non è presa in autonomia
ma in seguito a discussioni serrate con due emissari del governo di Mosca,
Michail Suslov e Ananstase Mikoyan, precipitatisi in Ungheria per cercare di
salvare una situazione ai loro occhi compromessa dagli errori di Gero.
Quest’ultimo, esonerato dal suo incaricato di segretario generale del partito,
conserva ancora per settimane il suo ufficio … Janos Kadar è nominato al suo
posto. Kadar è popolare: vecchio militante operaio, ha lottato in Ungheria
durante la guerra, nella clandestinità, mentre Rakosi e Gero erano a Mosca.
Beninteso, Rajk è stato torturato e assassinato mentre egli era Ministro degli
interni, ma poi Kadar è stato a sua volta arrestato e torturato con ferocia in
base all’accusa di “titismo”. Riabilitato in tempi recenti, si è battuto per la
“riforma” del partito ripartendo in un quartiere operaio di Budapest dove è
stato nominato segretario locale. Eppure ha accettato di partecipare al governo
Hegedus, dopo il crollo di Rakosi, e ha accompagnato Gero a Belgrado. Kadar
parla alla radio giovedì 25 ottobre: “Sono stato nominato in un momento reso
molto difficile da un’accozzaglia di soggetti che hanno lavorato contro di noi.
Il governo e il partito hanno deciso che dobbiamo sconfiggere quest’accozzaglia
con ogni mezzo a nostra disposizione … Facciamo appello agli operai e ai
giovani perché sostengano il nostro punto di vista.”[25] Non è convincente.
Parlando ancora alla vigilia di “controrivoluzionari” in lotta contro il
“potere della classe operaia”, minacciando “i provocatori che lavorano
nell’ombra”, salutando “gli alleati e fratelli sovietici”, e sottolineando quel
giorno in cui “la direzione del partito ha preso posizione all’unanimità
riguardo alla necessità di usare ogni mezzo per stroncare l’aggressione armata
contro il potere della nostra repubblica popolare”, senza neppure menzionare le
rivendicazioni degli insorti, presenta a chi lo ascolta un discorso appena
diluito rispetto alle minacce di Gero che hanno suscitato il sollevamento. Imre
Nagy, invece, sembra aver compreso meglio la situazione quando interviene a sua
volta alla radio. Il suo discorso del 25 ottobre mostra che pare capire la
determinazione dei combattenti e la necessità di fare concessioni politiche per
ottenere la fine dei combattimenti: “Dichiaro che il governo ungherese
intraprenderà tra poco dei negoziati con l’Unione Sovietica per:
ottenere il ritiro delle truppe sovietiche
dall’Ungheria;
fondare l’amicizia sovietico-ungherese sulla
base dei principi di uguaglianza e di indipendenza nazionale.
[…] Promettiamo di trattare con magnanimità
coloro che – giovani, civili e membri dell’esercito – cesseranno da subito di
combattere… La legge colpirà soltanto chi continuerà…”[26]
Quelli che si battono: gli
studenti
Oggi sappiamo in che modo si sono battuti i
giovani ungheresi contro i blindati russi. È importante chiarire
l’atteggiamento dei giovani “Combattenti per la libertà” – nome che si sono
dati essi stessi, mutuandolo dalla rivoluzione democratica e dalla guerra
d’indipendenza del 1848. A quell’epoca i “Combattenti per la libertà”
costituirono l’esercito di Kossuth, la Honvédség, “esercito dei difensori della
patria”, per contrastare l’invasione delle armate di Jelachich, degli eserciti
imperiale e zarista. Due giovani, con la loro mitraglietta – la “chitarra” – in
mano, due studenti, Ferko e Pista, hanno risposto durante i combattimenti di
Budapest alle domande di un giornalista britannico che conosceva l’ungherese:
“I Combattenti della libertà, dicono loro, hanno arrestato tutti gli Avos che
sono riusciti a scovare. In questa operazione molti membri della polizia
politica sono stati uccisi, ma ben pochi a titolo di rappresaglia: la maggior
parte sono stati uccisi in azione. L’apparato del partito è stato completamente
disintegrato sin dal primo giorno dell’insurrezione ma non c’è stato alcun
massacro dei quadri del partito. Abbiamo invaso i locali del partito,
sequestrato le armi e detto a tutti di tornare a casa. Ne abbiamo catturati
alcuni. Molti si sono uniti a noi.”[27]
Giovedì il “Comitato rivoluzionario degli
studenti in armi”, rappresentato dal suo presidente Ferenc Merey, si incontra
con Nagy.[28] Si mantiene il programma presentato dagli studenti alla vigilia
della rivoluzione aggiungendo alcune condizioni necessarie per deporre le armi:
“Governo provvisorio comprendente tutti i propri dirigenti”, “ritiro immediato
delle truppe russe”, “processo pubblico per i responsabili dei massacri”,
“libertà per tutti i prigionieri politici”, “scioglimento dell’Avh”.[29]
Inoltre Merey precisa: “Non siamo insorti per cambiare la base della società
ungherese, ma vogliamo un socialismo e un comunismo che corrispondano a ciò che
veramente vuole l’Ungheria. Su questo punto siamo tutti d’accordo.”[30]
Quelli che si battono:
l’esercito
Dalla sera del 24 non si trova più nessuna
unità militare ungherese che obbedisca al governo. Non se ne trova neanche una
che combatta contro gli insorti al fianco degli Avos e dei Russi. Il 25 ottobre
molte accademie militari, dopo aver costituito comitati rivoluzionari di
ufficiali e soldati, si battono con gli insorti contro gli Avos. Una di esse
strappa alla polizia politica il palazzo della stamperia del giornale
dell’esercito. Nella serata del 25 camionette militari diffondono il
seguente volantino:
“Giuriamo davanti ai cadaveri dei nostri
martiri che in queste ore critiche conquisteremo la libertà per il nostro
paese. I dirigenti del partito e del governo si sono preoccupati soltanto di
conservare il loro potere. Che direzione politica è quella che prende misure
timide soltanto sotto la pressione delle masse?
I loro atti arbitrari ci sono costati troppi
sacrifici in questi ultimi dieci anni. Ora hanno chiamato l’esercito sovietico
con l’obiettivo di reprimere il popolo ungherese.
Cittadini, noi chiediamo:
Un nuovo esercito rivoluzionario provvisorio e
un nuovo governo nazionale rivoluzionario provvisorio, in cui siano inclusi i
dirigenti della gioventù insorta.
L’abolizione immediata della legge marziale.
L’annullamento immediato del Patto di Varsavia e
il ritiro immediato e pacifico delle truppe sovietiche dalla nostra patria.
La testa dei veri responsabili del bagno di
sangue, la liberazione dei prigionieri politici e un’amnistia generalizzata.
Una base autenticamente democratica per il
socialismo ungherese; nel frattempo l’esercito ungherese porterà la
responsabilità per il mantenimento dell’ordine e il disarmo della polizia
politica, l’Avh.”
Lo stesso volantino prosegue affermando che “i
compagni Imre Nagy e Janos Kadar sono membri del nuovo governo rivoluzionario
dell’esercito”,[31] confermando ancora una volta la volontà dei rivoluzionari
di dissociare Nagy dall’apparato.
La provincia: sciopero
generale e nascita dei consigli operai
A Budapest le organizzazioni studentesche erano
il motore dell’agitazione politica. È al loro comitato rivoluzionario che si
sono unite le delegazioni operaie che si lanciavano nella battaglia. In
provincia la rivoluzione è iniziata con uno sciopero generale insurrezionale
scatenato dall’intervento russo. La rivoluzione ha immediatamente preso la
forma di consigli operai che hanno preso il potere. Così, per la prima volta
dopo alcuni decenni, i lavoratori ungheresi, in lotta contro la burocrazia,
ritrovavano spontaneamente le forme di organizzazione e di potere proletarie.
Ritrovavano la tradizione dei soviet (la parola russa che significa consiglio)
del 1905 e del 1917 e anche della prima Repubblica ungherese dei consigli
(marzo 1919). I consigli, eletti dal basso, con delegati revocabili in ogni
momento e responsabili davanti alla propria base, sono la realizzazione
autentica e concreta della democrazia proletaria e del potere degli operai
armati. Per descrivere i consigli ungheresi possiamo riprendere un passaggio di
Trotsky sul soviet di Pietrogrado del 1905:
“Il soviet è il potere organizzato della stessa
massa, al di sopra di tutte le sue frazioni. È la democrazia autentica e non
falsificata, senza le due Camere, senza burocrazia di mestiere ma che
garantisce agli elettori di sostituire, quando lo decidono, i deputati da loro
eletti. Il soviet, per mezzo dei suoi membri, attraverso i deputati che gli
operai hanno eletto, presiede direttamente a tutte le attività sociali del
proletariato nel suo insieme o nei suoi gruppi, organizza la sua azione, gli dà
una parola d’ordine e una bandiera.”
Il Consiglio di Miskolc
Situata nella regione nord-occidentale
dell’Ungheria, nella zona industriale di Borsod, vicina alle miniere di carbone
e alle acciaierie, nel cuore dell’industria siderurgica e metalmeccanica,
Miskolc, città di centomila abitanti, è la prima in cui si annuncia la
costituzione di un consiglio operaio. Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre gli
insorti, padroni della radio, annunciano che hanno preso il potere ed esigono
un “nuovo governo nello spirito di Bela Kun e Laszlo Rajk.”[32] Il riferimento
a questi due dirigenti comunisti, entrambi assassinati da Stalin – Kun
presidente nel 1919 della Repubblica dei consigli assassinato durante i
processi di Mosca, Rajk impiccato in quanto “titista” nel 1949 – è significativa
dell’orientamento politico del movimento. Il 25 ottobre i Comitati operai delle
fabbriche hanno eletto un Consiglio operaio della città, il cui programma è
diffuso dalla radio locale: “Noi chiediamo che ai posti di maggior
responsabilità del partito e dello Stato siano messi dei comunisti devoti al
principio dell’internazionalismo proletario, che siano innanzi tutto ungheresi
e rispettino le nostre tradizioni nazionali e il nostro passato millenario.
Chiediamo l’apertura di un’inchiesta sull’istituzione che garantisce la
sicurezza dello Stato (l’Avh) e l’eliminazione di tutti quelli che, dirigenti o
funzionari, siano in qualche misura compromessi. Chiediamo che i crimini di
Farkas e dei suoi sgherri siano esaminati in un processo pubblico davanti a un tribunale
indipendente, anche qualora si dovessero chiamare in causa alti dirigenti.
Chiediamo che i responsabili della cattiva direzione e amministrazione del
piano economico siano subito sostituiti. Chiediamo un aumento dei salari reali.
Vogliamo ottenere la garanzia che il Parlamento non resti ancora a lungo una
camera di registrazione coi parlamentari ridotti a mero pezzo di
quell’ingranaggio.”[33] Il 25 il consiglio operaio e il “Parlamento
studentesco” prendono il potere nell’agglomerato urbano di Miskolc e
dall’indomani l’autorità del consiglio operaio è riconosciuta in tutta la
provincia di Borsod.
Il 26 Rudolf Foldvari, segretario regionale del
Pc, membro del consiglio operaio, dichiara su Radio-Miskolc che il governo Nagy
ha accettato le rivendicazioni del Consiglio. Miskolc fa un appello ai
lavoratori della regione per eleggere consigli in tutte le fabbriche senza
considerare l’affiliazione politica dei candidati.[34] Lo stesso giorno si
forma, attraverso la federazione dei consigli locali, il consiglio operaio
della provincia di Borsod. Il consiglio operaio controlla la regione. La sua
delegazione a Budapest reclama da Nagy: aumento immediato dei salari, delle
pensioni e degli assegni familiari, la fine del rialzo dei prezzi, l’abolizione
della tassa sulle famiglie senza bambini, il processo a Farkas e un Parlamento
che non sia una assemblea di yes man, il ritiro delle truppe sovietiche e la
pubblicazione del Trattato di commercio sovietico-ungherese, la correzione
degli “errori” del piano economico.[35] La mattina del 28 la radio annuncia che
i consigli operai hanno sciolto tutte le organizzazioni comuniste della regione
di Borsod. Nelle campagne i contadini, sottomessi a una collettivizzazione
forzata, hanno cacciato i responsabili dei kolchoz e hanno proceduto alla
distribuzione delle terre. I consigli operai approvano la loro azione.[36]
Primo a costituirsi, il Consiglio operaio di Miskolc è consapevole delle
proprie responsabilità. Cerca di estendere a tutto il paese ciò che ha
stabilito nella regione di Borsod, il potere dei consigli. Il 28 Radio Miskolc
“chiede ai consigli operai delle città della provincia di coordinare i propri
sforzi nell’obiettivo di forgiare un solo e potente movimento.”[37] Il
programma seguente è proposto come base comune:
“Edificazione di un’Ungheria libera, sovrana,
indipendente, democratica e socialista.
Una legge che istituisca elezioni libere a
suffragio universale.
Partenza immediata delle truppe sovietiche.
Elaborazione di una Costituzione.
Soppressione dell’Avh, il governo dovrà
appoggiarsi su due forze in armi: l’esercito nazionale e la polizia.
Amnistia completa per chi ha imbracciato le
armi e processo per Gero e i suoi complici.
Elezioni libere entro due mesi con la
partecipazione di più partiti.”[38]
I Consigli di Gyor e di Transdanelia sono i
primi a rispondere all’appello.
Il Consiglio di Gyor
Gyor è una città di centomila abitanti. È la
città della gigantesca fabbrica di vagoni e locomotive “Wilhelm-Pieck
(Gyori-Mavag)”. L’insurrezione ha avuto inizio con uno sciopero generale. La
guarnigione russa ha accettato di buon grado di ritirarsi senza combattere. Un
Comitato nazionale rivoluzionario, eletto nelle fabbriche, dirige la regione
assieme a un Comitato militare ai suoi ordini. Il Comitato comprende 20 membri
di differente provenienza politica. Il presidente è un metalmeccanico, in
passato responsabile del partito socialdemocratico, Gyorgy Szabo, ma la
personalità più in vista è Attila Szigeti, un vecchio dirigente del Partito nazionale
contadino,[39] deputato e amico di Imre Nagy. Nel Comitato si sviluppa anche
un’opposizione, diretta dal vecchio sindaco della città, Ludwig Pocsa, eletto
nella fabbrica in cui lavora.[40] Sulle rivendicazioni immediate, però, il
Comitato è compatto: esige che sia fissata una data per elezioni libere entro
2-3 mesi e il ritiro delle truppe russe dall’Ungheria.[41] I delegati dei
minatori chiedono “la garanzia che l’esercito sovietico abbandoni
immediatamente il paese, come pure l’assicurazione che vengano autorizzate
elezioni libere con la partecipazione di tutti i partiti.”[42] Radio-Gyor
dichiara solennemente il 28:
“Agli insorti si sono mescolati elementi bacati
con tendenze fasciste e controrivoluzionarie. Noi non vogliamo che ritorni il
vecchio sistema capitalista; vogliamo un’Ungheria libera e indipendente.”[43]
Il Consiglio di Sopron
Nella cittadina industriale di Sopron, Ungheria
occidentale, il consiglio operaio è stato eletto a scrutinio segreto nelle
imprese e nella scuola forestale. Il socialista austriaco Peter Strasser ha
assistito alle riunioni e assicura: “Sono decisamente opposti alla
restaurazione del vecchio regime di Horthy [dittatore del paese fra le due
guerre mondiali, NdT].”[44] Il consiglio ha organizzato il controllo dell’ordine
pubblico mediante la formazione di pattuglie miste composte da un operaio, un
soldato e uno studente.[45] Il consiglio ha inviato in Austria due delegazioni
di giovani comunisti per sviluppare una campagna di solidarietà orientata verso
il movimento operaio internazionale.[46]
Il Consiglio di Magyarovar
Il Consiglio di Magyarovar è stato anch’esso
eletto a scrutinio segreto. Comprende ventisei membri, tra cui quattro
comunisti, dei senza partito e alcuni rappresentanti dei vecchi partiti
riformisti – socialdemocratici, nazional-contadini e piccoli proprietari. Il
suo presidente è un operaio comunista, Gera, il quale dichiara: “Ci sono
sostanzialmente due grandi problemi: i russi devono andarsene e si devono
tenere elezioni democratiche.” Al giornalista americano, stupito, precisa: “I
comunisti che sono nel Consiglio sono brave persone. Non opprimono nessuno e il
popolo ungherese lo sa.”[47] Il programma del Consiglio di Magyarovar chiede
elezioni libere e democratiche sotto il controllo dell’Onu, la libertà dei
partiti democratici, la libertà di stampa e di riunione, l’indipendenza dei
sindacati, la liberazione dei carcerati, lo scioglimento dell’Avh, la partenza
dei russi, lo scioglimento delle aziende agricole collettive imposte con l’uso
della forza, la soppressione delle differenze di classe.[48]
Il programma dei consigli
Non è possibile continuare l’elenco. In ogni
città industriale dell’Ungheria si sono formati consigli operai: a Dunapentele,
la vecchia Sztalinvaros, perla dell’industrializzazione del periodo Rakosi, a
Szolnok, nodo ferroviario del paese, a Pecs, nelle miniere del sud-ovest, a
Debreczen e a Szeged. Entro il 1° novembre si sono formati in tutto il paese,
in ogni località, consigli che assumono il compito di salvaguardare le conquiste
socialiste e assicurare il rifornimento della capitale in lotta. Tutti hanno le
stesse caratteristiche: eletti dai lavoratori nel fuoco dello sciopero generale
insurrezionale, essi garantiscono il mantenimento dell’ordine e la lotta contro
i russi e gli Avos con milizie composte di operai e studenti armati; hanno
sciolto gli organismi del Pc ed epurato le amministrazioni ora sottoposte alla
loro autorità. Sono l’espressione del potere degli operai in armi. Ecco uno dei
tanti esempi possibili dello spirito della popolazione di cui esprimono la
volontà. Il 29 ottobre alle 10.20 radio Gyor-libera annuncia:
“Comunichiamo il messaggio delle donne del
villaggio Gyirmot alla radio di Gyor libera:
‘Le contadine di Gyirmot fanno appello alle
donne dell’area di Gyor. Ieri abbiamo saputo, da una di noi che tornava dal
mercato di Gyor, un fatto vergognoso che ci ha disgustate. Eccolo: alcune
contadine presenti al mercato, davanti alla domanda smisurata, hanno venduto il
latte destinato alla distribuzione ordinaria a 6 fiorini al litro invece di 3.
Dunque, non soltanto esse non hanno adempiuto ai loro doveri, e ci sarà meno
latte per gli operai di Gyor, ma in più ne hanno approfittato per fare
profitto. Analogamente siamo scandalizzate per l’aumento del prezzo dell’anatra,
venduta da una contadina a 30 fiorini al chilo… Una donna siffatta non è
un’ungherese!
Donne, non permettete che cose del genere
possano accadere di nuovo! Non dimenticate che chi compra è il combattente in
lotta per il nostro futuro!”
Il programma dei consigli, malgrado alcune
formulazioni differenti, è straordinariamente coerente: tutti esigono la
partenza immediata dei russi, la dissoluzione dell’Avh, la promessa di elezioni
libere, la libertà per i partiti democratici, l’indipendenza dei sindacati e il
diritto di sciopero, la libertà di stampa e di riunione, la revisione del piano
e l’aumento dei salari, la libertà in campo artistico e culturale. Tutti, per
la loro stessa esistenza, rivendicano il diritto dell’operaio ungherese di
prendere in mano la sua vita. Tutti esigono un governo rivoluzionario che
includa i rappresentanti degli insorti. Col loro esempio, con la loro azione,
sono un pericolo mortale per la burocrazia come per l’imperialismo.
Nell’immediato sono i primi responsabili delle rivolte antiburocratiche che si
verificano nell’esercito russo.
L’esercito russo si squaglia
al fuoco della rivoluzione
I soldati russi intervenuti contro la
rivoluzione ungherese, come abbiamo ricordato, erano stati precedentemente
informati che avrebbero combattuto una “controrivoluzione fascista appoggiata
da truppe occidentali”. Però, di stanza nel paese da mesi, si sono velocemente
resi conto del lavoro che veniva loro richiesto. Non hanno visto eserciti
occidentali, non hanno visto fascisti o controrivoluzionari ma un intero popolo
insorto: operai, studenti, soldati. Dal secondo giorno dell’insurrezione un
corrispondente britannico sottolinea che alcuni equipaggi dei carri armati
hanno tolto dalla loro bandiera lo stemma sovietico e si battono, così, a
fianco dei rivoluzionari ungheresi sotto la “bandiera rossa del comunismo.”[49]
Un testimone dichiara di aver visto carri russi unirsi agli insorti: “Di solito
l’equipaggio di un carro prendeva una decisione collettiva. I soldati
abbassavano la bandiera sovietica e issavano al suo posto la bandiera
ungherese. Gli ungheresi li coprivano di fiori.”[50] Il 28 ottobre il giornale
dei sindacati ungheresi, Nepszava, esigeva il diritto di asilo per i soldati
russi passati nelle file dei rivoluzionari. In altre zone molte unità rimasero
neutrali; abbiamo visto che la guarnigione di Gyor si ritirò … Un testimone
britannico ha visto nella periferia di Budapest insorti che portavano latte
negli accampamenti russi: “Latte per i bambini russi”, spiegavano. “Hanno
stipulato un accordo. Ogni giorno i patrioti portano cinquanta litri di latte
per i bambini russi.”[51] Il fatto è che i rivoluzionari ungheresi ogni volta
che possono circondano i soldati russi, a cui mostrano le loro mani callose di
operai: “Guarda le mie mani, compagno… Sono le mani di un operaio. Mi sono
battuto contro i vostri carri. Ho mani da fascista?”[52]
In tali condizioni, davanti alla resistenza
determinata dei rivoluzionari ungheresi, l’utilizzo dell’esercito russo per
fini repressivi diventa sempre più pericoloso. La repressione ha bisogno di
truppe fresche e sicure. Ciò basta a spiegare la svolta del 28 ottobre, quando
chiaramente Imre Nagy ha riconquistato la sua libertà d’azione e ha smesso di
essere un ostaggio in mano ai russi. È nei giorni seguenti che si concluderà la
chiarificazione politica, mentre sarà confermato dall’entourage stesso di Nagy
che dal suo arrivo al “potere” egli era stato un ostaggio dei russi.
Il 27, in effetti, Imre Nagy riceve una
delegazione degli operai di Angyafold a cui si sono uniti molti dei suoi amici
politici, tra cui Miklos Gimes e Jozsef Szilagyi, a cui egli garantisce di non
aver fatto appello alle truppe russe anche se Gero – dopo la sua sostituzione
del 25 – ha cercato di fargli firmare un documento in questo senso. Nagy
inoltre promette loro che il giorno seguente, il 28, farà una dichiarazione sul
significato della rivoluzione, “democratico-nazionale e non controrivoluzione”,
sul ritiro delle truppe russe da Budapest e su altre importanti misure.
III. I giorni
dell’indipendenza
Il
secondo governo Nagy
Il 27 Nagy annuncia la formazione di un nuovo
governo destinato a soddisfare le rivendicazioni degli insorti. I socialisti
hanno rifiutato di parteciparvi, ma alcuni noti stalinisti sono stati messi da
parte: Istvan Bata, della Difesa nazionale, Hegedus, Darvas… Il filosofo Lukacs
e Geza Losonczy sono riconosciuti invece come oppositori comunisti. Il generale
Karoly Janza, militare di professione, sembra sul punto di unirsi ai quadri
dirigenti dell’esercito. Da Bela Kovacs e da Zoltan Tildy, leader dei piccoli
proprietari, Nagy senz’altro spera che otterranno l’appoggio dei contadini al
suo governo.
Ma sono speranze vane. Da parte degli insorti,
l’accoglienza è molto fredda. Il 27 ottobre Radio-Miskolc dichiara: “Imre Nagy
gode oggi della fiducia del popolo. È sufficiente? […] Imre Nagy dovrebbe avere
il coraggio di sbarazzarsi dei politicanti i quali non possono che appoggiarsi
sulle armi, che utilizzano per opprimere il popolo.” L’indomani, sulla stessa
frequenza, il consiglio operaio di Borsod argomenta così: “Imre Nagy ha
dichiarato che, durante i combattimenti, si era formato un governo di unità
nazionale democratico, per l’indipendenza e il socialismo, espressione
dell’autentica volontà popolare. I lavoratori di Borsod ritengono sia davvero
l’ora che il governo Nagy esprima appena possibile la volontà del popolo con
atti concreti. Il governo promette di basarsi sulla forza e il controllo del
popolo, e spera di conquistare la fiducia del popolo. La forza popolare
sosterrà Nagy se il suo governo passa da subito alla realizzazione delle
legittime rivendicazioni del popolo, senza alcuna ulteriore esitazione.”[53]
Szigeti, in nome del consiglio di Gyor, dichiara di considerare Nagy un
patriota ma che alcuni membri del suo governo sono inaccettabili.[54] Il
portavoce del consiglio di Magyarovar dichiara: “Siamo disponibili ad appoggiare
il nuovo governo, ma esso ci deve prima di tutto dimostrare il suo spirito
perché noi gli diamo piena fiducia…”[55] I Consigli di Debrecen e Dunapentele
sostengono il governo Nagy ma quello di Szeged richiede a gran voce
l’eliminazione dello stalinista Antal Apro dalla compagine; i ferrovieri di
Pecs non accettano Bebrics come ministro delle comunicazioni e il Consiglio
rivoluzionario dell’università esige che sia cacciato dal governo Ferenc
Munnich, ministro degli interni, considerato un agente del Cremlino.
Le decisioni del 28 ottobre
Nella notte tra il 27 e il 28 Imre Nagy ha
ripreso contatto coi rappresentanti del “Comitato rivoluzionario degli studenti
in armi”, i quali mantengono tutte le loro rivendicazioni iniziali. Adesso Nagy
le accetta, proprio come il giorno prima aveva accettato quelle di Miskolc. Si
fissa una tregua. Il quotidiano del Pc Szabad Nep afferma: “Il popolo vuole
ordine e, in primis, la partenza delle truppe sovietiche … Noi vogliamo una
democrazia ungherese, economicamente, socialmente e politicamente indipendente
… Era un giusto movimento nazionale.” Nagy annuncia direttamente alla radio le
ultime novità. Egli dichiara che il governo sovietico accetta di evacuare
Budapest e che ci sono negoziati per la partenza delle truppe russe
dall’Ungheria. Nagy riconosce i consigli operai a cui chiede collaborazione.
L’Avh è sciolta. Nasce una nuova forza armata, con un Esecutivo nazionale: è
una sorta di milizia o guardia nazionale dove entreranno, a fianco del vecchio
esercito e della vecchia polizia, i rivoluzionari armati, operai e studenti.
Nagy annuncia anche il ristabilimento della bandiera nazionale e che il governo
farà tutto il possibile per soddisfare le rivendicazioni dei rivoluzionari.
I consigli rispondono: quello di Gyor domanda
ai consigli della regione di nominare chi parteciperà alla nuova milizia.[56]
Joszef Kiss, presidente del consiglio operaio di Borsod, proclama a Miskolc:
“L’insurrezione nazionale è vittoriosa, il governo soddisferà le nostre
richieste, non sparate né contro le truppe sovietiche né contro quelle
governative.”[57] Radio-Miskolc chiama gli insorti ad arruolarsi nella nuova
milizia nazionale. Ma nessuno di questi consigli vuole riconoscere il governo
Nagy prima di aver acquisito la certezza che esso cerchi veramente di ottenere
la partenza dei russi. Tutti dichiarano che non consegneranno le armi prima
dell’evacuazione completa del paese.
Nel contempo, da tutte le regioni del paese
delegazioni dei consigli partono per Budapest e fanno sapere a Nagy le condizioni
poste dai lavoratori per riconoscere il suo governo. Sono questi incontri che
produrranno, nei giorni seguenti, le ferme prese di posizione da parte di Nagy.
Davanti alla scelta tra le esigenze dei russi e quelle degli operai
rivoluzionari, Nagy si ricorda della lezione della settimana appena trascorsa e
sceglie la rivoluzione, contro la burocrazia e l’apparato.
Il problema della partenza dei
russi
La tregua precaria conclusa il 26 rischia di
fallire. Il comando militare russo, prima di ritirarsi da Budapest, esige la
consegna delle armi da parte degli insorti. Al rifiuto opposto da questi ultimi
i combattimenti riprendono nella notte tra il 29 e il 30.
Così il 29, alle 20.50, Radio-Gyor-libera
proclama:
“Contrariamente all’informazione fornita da
Radio-Kossuth, il popolo di Budapest continua la sua lotta armata per la
liberazione. Noi, consigli operai dei minatori di Pecs, Dorog, Tokod,
Tatabanya, Tata, Miskolc abbiamo preso le decisioni seguenti: non potremo
strappare la nostra rivendicazione – il ritiro dei russi dal nostro paese – che
con l’arma dello sciopero!
I consigli operai si sono impegnati, parlando a
nome del popolo, a sospendere la produzione di carbone finché resteranno
soldati russi in Ungheria! La gioventù di Gyor non riprenderà il lavoro prima
che l’ultima unità russa abbia abbandonato il nostro paese …
Avanti verso lo sciopero per una Ungheria
libera e indipendente!”
Infine, i ussi cedono e cominciano il ritiro
mentre gli insorti, sotto assedio dall’inizio della rivoluzione, escono con le
loro armi. È così che, in particolare, Budapest e l’Ungheria conoscono il nome
del colonnello Maleter, ufficiale comunista che aveva diretto per sei giorni i
milleduecento insorti, operai studenti e soldati, assediati dai russi nella
caserma Kilian. Questo ufficiale, là inviato per reprimerli, era passato
assieme ai suoi soldati dalla parte degli insorti.
Allo stesso tempo un comunicato governativo
toglie dalle spalle di Nagy la responsabilità per i decreti istitutivi della
legge marziale e di appello alle truppe russe:
Radio-Kossuth, 30 ottobre, ore 18.30,
comunicato molto importante: “Ungheresi, la nostra tristezza, la nostra
vergogna, il surriscaldarsi degli animi erano provocati da due decreti che
hanno fatto versare il sangue di centinaia di persone: il primo, l’appello per
l’intervento a Budapest dell’esercito sovietico, l’altro, la legge marziale
contro i combattenti della libertà.
Assumiamo la responsabilità di dichiarare
davanti alla storia che Imre Nagy, presidente del consiglio dei Ministri, non
sapeva nulla di queste due decisioni. La sua firma non figura a suggello di
questi due decreti. La responsabilità per questi due decreti è portata da Erno
Gero e Andrai Hegedus.”[58]
Nagy riprende tutto ciò in un grande discorso
pronunciato il giorno seguente, 31 ottobre, davanti a una folla in delirio.
Dichiara: “La rivoluzione ha vinto … La banda [Rakosi-Gero] ha cercato di
insudiciarmi affermando che avevo richiesto l’intervento sovietico. È falso. Al
contrario, esigevo la partenza immediata dell’esercito sovietico”, e aggiunge,
“oggi inizia la conferenza per l’abrogazione del Patto di Varsavia ed il ritiro
dei Russi dal nostro paese.” Ed è del 1° novembre, davanti ai movimenti di
truppe russe che violano formalmente le dichiarazioni del loro governo, la
risonante dichiarazione del ritiro dell’Ungheria dal Patto di Varsavia e la
proclamazione della sua neutralità: “Operai di Ungheria, proteggete il nostro
paese, la nostra Ungheria libera, indipendente e democratica.”[59]
Il problema del partito
stalinista
Imre Nagy, in questi giorni decisivi,
inchinandosi alla volontà dei lavoratori ungheresi, ha smesso di parlare come
un uomo d’apparato. Szabad Nep, rispondendo in termini vivaci alle accuse della
Pravda, tiene un linguaggio del tutto diverso da quello della stampa stalinista
di tutto il mondo. Il fatto sostanziale è che, sotto la pressione delle masse,
Nagy e i suoi compagni hanno rotto con l’apparato stalinista.
Abbiamo visto come quelli che chiamavamo i
“comunisti liberali” si fossero battuti, nel quadro del partito, per la
reintegrazione degli esclusi e il cambiamento della direzione, in una parola
per la riforma e il cambiamento di corso del partito. Ma questa posizione, dopo
alcuni giorni di lotta armata, si è rivelata impraticabile.
Il 28 ottobre i consigli operai hanno
intrapreso in tutto il paese lo scioglimento delle organizzazioni di partito.
Chi poteva ancora credere in un cambiamento del partito da realizzarsi sotto la
direzione del CC che ha mantenuto e coperto Gero, cooptando Nagy e i suoi
seguaci soltanto per comprometterli col sangue degli insorti in una repressione
ordinata da Mosca? Il comitato centrale si autoscioglie e nomina una direzione
provvisoria incaricata della preparazione del prossimo congresso. Il Presidium
che ne risulta ha nelle sue fila solo militanti imprigionati o perseguitati
sotto Stalin-Rakosi. In suo nome, Kadar dichiara: “Potranno essere membri del partito
rinnovato solo coloro che non hanno alcuna responsabilità nei crimini
passati.”[60] Nessuno può più parlare di “riforma” davanti a un rinnovamento
così radicale. Due giorni dopo, Kadar fa appello ai militanti perché si
uniscano ai Combattenti per la libertà.[61]
Il 1° novembre anche l’ipotesi del partito
“rinnovato” si dimostra impraticabile. Non c’è più un partito comunista.
L’apparato si è battuto dalla parte dei russi assieme agli Avos. La gran parte
dei militanti si è battuta coi rivoluzionari. Nessuno si sogna di unirsi a un
partito stalinista, per quanto “rinnovato”. Ansiosi di “rompere per sempre col
passato”, Nagy, Kadar, Lukacs, Szanto formano un nuovo partito che rompe con
l’organizzazione ufficiale e che essi chiamano partito socialista operaio
ungherese. Hanno così riconosciuto il loro fallimento, l’impossibilità di
riformare un partito stalinista? Almeno all’apparenza, si inchinano al verdetto
delle masse ungheresi: comunisti e antistalinisti fondano un partito sulla base
del leninismo. Ma non è ancor più significativo che un militante come Miklos
Gimes abbia rifiutato di unirsi a una formazione politica che non considerava
avesse rotto realmente con lo stalinismo?
Il potere dei consigli
Sin dal 28, annunciando il cessate il fuoco,
Nagy aveva riconosciuto i consigli e promesso la vittoria per le loro
rivendicazioni. Andando oltre, “propone ai consigli operai e ai comitati
rivoluzionari di coordinare le loro attività e di formare gli Stati generali
dell’insurrezione.”[62] Nascerebbe così un’autentica repubblica dei consigli,
una reale rappresentanza dei lavoratori in armi per mezzo di un Parlamento
operaio. Non si poteva andare oltre sulla via rivoluzionaria e, su questo
punto, Nagy si collegava al consiglio di Miskolc che aveva rivolto una proposta
simile a tutti i consigli di provincia.
Nell’esercito si sono formati Comitati
rivoluzionari dei soldati. La riunione dei loro delegati del 30 ottobre al
Ministero della difesa costituisce in via definitiva il Comitato rivoluzionario
dell’esercito.[63] Viene subito lanciato un manifesto dove si dichiara che
l’esercito è al fianco del popolo per difendere le conquiste della rivoluzione,
dopo aver eliminato un certo numero di ufficiali reazionari e mentre si accinge
al disarmo degli Avos.
Lo stesso giorno si apprende che il Comitato
rivoluzionario dei giuristi ungheresi ha appena costretto alle dimissioni il
procuratore generale Gyorgy Non in seguito ad un esame del dossier riguardante
la sua attività.[64]
Si forma un Comitato rivoluzionario al Ministero
degli esteri. Fa proposte concrete al governo per la riorganizzazione della
rappresentanza ungherese all’estero e richiama la delegazione all’Onu perché
non ha sostenuto il punto di vista dei rivoluzionari.
I ferrovieri hanno ottenuto la revoca del ministro
delle comunicazioni, Lajos Bebrics, e il Consiglio rivoluzionario
dell’Università invoca quella di Munnich. A tutti i livelli, in ogni località,
in ogni amministrazione, i consigli operai e i comitati rivoluzionari prendono
in mano la gestione delle cose. Si crea una nuova democrazia socialista, la
democrazia operaia autentica dei consigli, identica a quella dei soviet russi
del 1917.
Il programma dei sindacati
Il 27 ottobre su Nepszava ed il 3 novembre su
Nepakarat, i sindacati ungheresi, epurati per opera dei lavoratori della loro
direzione stalinista, hanno presentato un programma che riflette la volontà
della classe lavoratrice e la tendenza della rivoluzione ungherese in questa
settimana decisiva: fine dei combattimenti attraverso negoziati coi capi della
gioventù insorta, costituzione di una Guardia Nazionale con operai e giovani
per rinforzare l’esercito e la polizia, negoziati per il ritiro delle truppe
sovietiche.[65] I sindacati, inoltre, richiedono la costituzione di consigli
operai in tutte le fabbriche, con diritto di opinione sulla pianificazione e la
fissazione delle norme lavorative.[66] Questi consigli consentiranno di
instaurare una autentica “direzione operaia” dell’economia, e di conseguenza
una “trasformazione radicale del sistema di pianificazione e di direzione
dell’economia”. Coscienti del ruolo parassitario della burocrazia installata
nelle imprese, i sindacati chiedono, assieme all’aumento immediato dei salari
inferiori a 1500 fiorini, lo stabilimento di un tetto massimo di 3.500 fiorini
per tutti i salari. Questa rivendicazione, analoga a quella avanzata dagli
studenti di Szeged prima dell’inizio dell’insurrezione, dimostra quanto i
lavoratori avessero preso coscienza del ruolo giocato nella divisione dei
lavoratori dalla differenziazione salariale, una delle chiavi di volta del
sistema burocratico stalinista. I sindacati esigevano anche il diritto di
sciopero e la denuncia delle norme di lavoro vigenti. Proclamavano, il 3
novembre, la loro indipendenza rispetto a ogni partito politico e ogni governo,
al pari della loro volontà di partecipare alla direzione degli organismi
rivoluzionari e alle future elezioni generali. Decidevano, infine, di rompere
con la Federazione sindacale mondiale – controllata dagli stalinisti – che, per
bocca di Saillant, suo presidente, li aveva insultati, mantenendo contatti con
tutte le altre organizzazioni sindacali internazionali.[67]
Il programma degli
intellettuali
Il programma adottato dal Comitato
rivoluzionario degli intellettuali, “costituito il 28 ottobre nell’edificio
centrale dell’Università Lorand Eotvos di Budapest”, che riuniva “tutte le
organizzazioni di intellettuali, scrittori, artisti, eruditi e studenti”, non è
meno indicativa della volontà dei rivoluzionari ungheresi di costruire
un’autentica democrazia socialista che delle possibilità che si offrivano di
far emergere una direzione e un programma chiari per tutti i rivoluzionari:
“Regolamento immediato delle nostre relazioni
con l’Unione Sovietica. Ritiro delle truppe sovietiche dal territorio
ungherese.
Annullamento immediato di tutti gli accordi
commerciali conclusi con paesi stranieri che portino danno alla nostra economia
nazionale. Il paese deve essere informato sulla natura di tali accordi
commerciali, inclusi quelli relativi alle esportazioni di uranio e bauxite.
Elezioni generali a scrutinio segreto. I
candidati devono essere nominati dal popolo.
Le miniere e le fabbriche devono realmente
appartenere agli operai. Le miniere e le terre devono rimanere proprietà del
popolo e niente deve essere restituito ai capitalisti e ai vecchi grandi
proprietari. Le fabbriche devono essere dirette da Consigli operai liberamente
eletti. Il governo deve proteggere il diritto di esercizio di artigiani e
piccoli commercianti.
Abolizione del vecchio sistema pieno di abusi
odiosi. I salari troppo bassi e le pensioni devono essere aumentati in base
alle possibilità della nostra economia.
I sindacati devono difendere realmente gli
interessi della classe operaia e i loro dirigenti devono essere eletti
liberamente. I contadini potranno creare i loro sindacati.
Il governo deve assicurare la libertà della
produzione agricola e aiutare i piccoli contadini e le cooperative formate su
base volontaria. Bisogna abolire l’odioso sistema delle consegne obbligatorie.
Bisogna rendere giustizia ai contadini che
hanno subito la collettivizzazione forzata e indennizzarli.
Il governo deve assicurare una completa libertà
di stampa e di riunione.
Il 23 ottobre, giorno dell’insurrezione del
nostro popolo per la sua liberazione, deve essere proclamato festa
nazionale.”[68]
La caccia agli Avos
La partenza dei russi aveva lasciato a Budapest
gli Avos isolati di fronte agli insorti. I conti con loro furono presto
regolati. Vogliosa di fatti eclatanti, la stampa borghese a grande tiratura ha
raccontato tutti i dettagli della caccia agli Avos in cui si lanciarono i
“Combattenti della libertà” nei giorni della loro effimera vittoria. È inutile
descriverla nuovamente. Sono tutt’al più necessarie alcune spiegazioni.
Diciamo innanzitutto che gli insorti hanno dato
la caccia agli Avos perché li odiavano. Il corrispondente a Budapest del Daily
Worker, Charlie Coutts, ha intitolato uno dei suoi articoli “Perché si odiava
l’Avh”.[69] Spie e torturatori, arroganti e onnipotenti, per dieci anni gli
Avos avevano concentrato su di loro l’odio di un intero popolo. La loro
condotta sin dall’inizio dell’insurrezione, la sparatoria alla Radio e quella
al Parlamento, le esecuzioni sommarie, tutto ciò ha fatto tracimare l’odio nei
loro confronti durante le giornate rivoluzionarie.
Inoltre, gli Avos dovevano essere cacciati
perché costituivano un pericolo reale. Finché le truppe russe stazionavano in
Ungheria, finché Budapest restava alla portata dei loro cannoni, finché il loro
ritorno era possibile, la presenza di un Avos rappresentava un pericolo mortale
per ogni rivoluzionario ungherese. Nella Budapest libera gli Avos erano la
quinta colonna: gli insorti si sono voluti garantire al tempo stesso la loro
sicurezza e la loro retrovia.
Senz’altro, non tutti i rivoluzionari hanno
approvato i metodi sbrigativi con cui Budapest è stata ripulita dagli Avos.
Sappiamo che la sera del 31 una delegazione degli Avos supplicò l’Unione degli
scrittori di intervenire presso i Combattenti della libertà per siglare un
accordo che salvasse loro la pelle. Ma l’intervento dell’Unione degli scrittori
– tra cui molti, e dei migliori, erano stati torturati dagli Avos – non
produsse alcun effetto. Ugualmente il 3 novembre Bela Kiraly, capo delle forze
militari rivoluzionarie di Budapest, confermava che gli ordini del governo e
dei comitati erano di non uccidere nessuno sul posto ma di deferire tutti gli
Avos arrestati davanti ai tribunali.[70] Concretamente, la caccia ai poliziotti
dell’Avh si ferma soltanto il 2 novembre, ormai in assenza di preda.[71]
La stampa dei partiti stalinisti ha utilizzato
questi fatti ed ha cercato di trarne vantaggio per descrivere una
controrivoluzione bianca che dava la caccia ai militanti comunisti nelle strade
di Budapest. Ma i medesimi fatti da essa citati smentiscono tale tesi:
scrivendo infatti che “un militante della Federazione, il compagno Kelemen, è
stato tolto dalla forca dalla folla che l’ha riconosciuto”,[72] André Stil, su
L’Humanité, confessa in questo modo che la folla non uccideva chi non conosceva
come Avos, quando scopriva che si trattava invece di un comunista. La morte,
dovuta a una tragica sottovalutazione, del veterano comunista Imre Mezo, segretario
del partito a Budapest, già nelle Brigate internazionali in Spagna e nei
partigiani Ftp-Moi in Francia, coraggioso avversario di Rakosi, non smentisce
questa interpretazione. Fu ucciso proprio mentre difendeva la sede del partito,
dove stava ricevendo delegazioni di rivoluzionari ma dove giunsero degli Avos a
cui si dava la caccia, per aver resistito all’ira delle masse con le armi alla
mano, trascinando alla morte gli altri occupanti della sede.
Fino a oggi massacri, esecuzioni sommarie e
linciaggi, hanno accompagnato ogni rivoluzione. Dobbiamo ricordare i massacri
di settembre durante la rivoluzione francese, le esecuzioni di ostaggi
effettuati dalla Comune di Parigi e i fatti analoghi avvenuti durante la
rivoluzione russa, la rivoluzione spagnola o, in tutta Europa, durante la
Liberazione? La vendetta delle masse è tanto più terribile quanto più i
controrivoluzionari che hanno scatenato la loro collera erano stati crudeli e
brutali. Gli Avos hanno raccolto ciò che avevano seminato: sono stati bruciati
dall’incendio acceso da quella burocrazia di cui erano stati i fedeli
servitori.
Tendenze controrivoluzionarie:
gli emigrati
Sin dall’annuncio dell’insurrezione ungherese
numerosi emigrati hanno cercato di rientrare nel loro paese; si trattava di
elementi democratico borghesi, socialdemocratici, fascisti. È nota la tesi de
L’Humanité, secondo la quale queste tendenze hanno fornito i quadri al
movimento controrivoluzionario, che avrebbe così trionfato sotto il bastone
protettore di Nagy non fosse stato per il provvidenziale intervento russo.
Un certo numero di fatti contraddice questa
tesi. Innanzitutto un memorandum del governo austriaco, datato 3 novembre,
dichiara: “Il governo austriaco ha ordinato di istituire una zona vietata lungo
la frontiera austro-ungherese … Il ministro della difesa ha visitato questa
zona assieme ai delegati militari delle quattro grandi potenze, compresi quelli
dell’Urss. I delegati militari hanno così potuto assicurarsi delle misure prese
per proteggere la frontiera e garantire la neutralità austriaca. Tutte le precauzioni
possibili sono così state adottate alla frontiera occidentale per impedire
l’infiltrazione di emigrati … Le autorità austriache hanno pregato il vecchio
Presidente del consiglio, Ferenc Nagy (del Partito dei piccoli proprietari),
arrivato rapidamente a Vienna, di abbandonare il territorio austriaco. Di ciò
sono a conoscenza anche le autorità sovietiche. Il permesso per rimanere in
Austria è rifiutato ai dirigenti politici dell’emigrazione. L’ambasciatore
austriaco a Mosca ha informato di questi fatti il Ministero degli esteri
dell’Urss”. Nonostante la campagna della stampa stalinista, il governo russo
non ha mai contestato ufficialmente questi fatti presso il governo
austriaco.[73]
Allo stesso modo il vecchio segretario della
gioventù socialista ungherese, Ferenc Eross, linotipista a Bruxelles, non ha
potuto varcare la frontiera ungherese, essendo stato respinto proprio dagli
insorti, che egli tra l’altro approva per questa misura cautelare.[74]
Il principe Eszterhazy
L’Humanité ha fatto molto chiasso anche sulla
liberazione del principe Eszterhazy, il maggior proprietario terriero
dell’Ungheria anteguerra, la cui liberazione indicherebbe, secondo il
quotidiano del Pcf, il carattere “horthysta” del movimento. In verità, liberato
come ogni prigioniero politico, liberato come tutte le vittime di Rakosi, il
principe si è ben guardato dal restare in questa terra dove brucia la fiamma
rivoluzionaria. È partito in fretta e furia e con discrezione per l’Austria,
godendovi senza turbamenti l’immensa fortuna conservata. Ha provato ad agire
pubblicamente inviando, dall’Austria, soccorsi e vestiti ai contadini dei suoi
antichi possedimenti in Ungheria. Tutto gli è stato rispedito senza nemmeno
essere stato toccato.[75] Immaginiamo dei contadini che versano il loro sangue
per restituire al principe i suoi possedimenti, battersi per subire nuovamente
il secolare giogo di servitù?
Il cardinale Mindszenty
Il cardinale Mindszenty ha fornito molto
materiale per le dichiarazioni più sensazionaliste di chi, borghesi o stalinisti,
voleva accreditare l’idea di una controrivoluzione bianca in Ungheria.
Radio-Praga, il 1° novembre, dà l’annuncio di un governo presieduto dal
primate: l’informazione, rilanciata da Afp, farà le delizie della stampa
reazionaria e de L’Humanité, ben felice di utilizzare le invenzioni di Radio
Free Europe per le necessità della sua propaganda.
Mindszenty, cardinale e primate d’Ungheria, è
un reazionario senza scrupoli, un nemico inconciliabile della rivoluzione. È
stato però liberato, come Eszterhazy, da una rivoluzione che, generosa come
ogni rivoluzione, apriva le porte delle prigioni. Gli stessi uomini avevano
torturato anche Rajk. Come Rajk anche Mindszenty aveva confessato. Riabilitato
Rajk si doveva liberarlo…
Si sono attribuite al cardinale ogni sorta di
intenzioni e propositi. In particolar modo la sua intervista su Radio-Budapest
avrebbe preoccupato i russi spingendoli all’intervento. Il giornalista
britannico Mervyn Jones ha cercato il resoconto stenografico del suo discorso
pronunciato alla radio il 3 novembre. Il cardinale ha parlato della “lotta per
la libertà” che si sviluppava in Ungheria e affermato che essa segnalava la
volontà di un popolo di stabilire “una coesistenza pacifica fondata sulla
giustizia”. Ha chiesto la messa sotto accusa dei rakosisti davanti a “tribunali
imparziali e indipendenti” e si è pronunciato contro lo spirito di vendetta.
Ecco il suo programma: “Noi vogliamo una società senza classi e uno Stato in
cui prevalga la legge, un paese che sviluppi le sue conquiste democratiche,
fondata sul diritto alla proprietà privata ristretto giustamente dagli
interessi della società e della giustizia”. Non chiede la restituzione dei beni
confiscati alla Chiesa ma libertà di insegnamento religioso e libertà di stampa
e di organizzazione per i cattolici. Equivale forse ciò a una conversione del
cardinale a una forma cristiana di democrazia socialista? Certo che no, ma,
come pensa Jones, “a causa del fatto che il dominio delle forze democratiche
era così schiacciante e le prospettive per la controrivoluzione così scarse”,
il cardinale non poteva che assumere quel linguaggio.[76] Il giornalista
jugoslavo Vlado Tesic, in una nota d’agenzia in cui insiste sul pericolo di
“una evoluzione verso destra” soprattutto a causa della liberazione di
Mindszenty, fornisce un’informazione preziosa: gruppi di destra distribuiscono
volantini dal titolo: “Non abbiamo nulla a che vedere coi Consigli operai: i
comunisti hanno il naso là dentro”. Pubblicamente, però, su questa questione i
vari Mindszenty tacciono. Un altro corrispondente jugoslavo, Djuka Julius, ha
notato un gruppo di giovani attacchinare volantini scritti a mano in cui si
rivendica l’eliminazione dei comunisti e la formazione di un governo
Mindszenty; “parole d’ordine moderatamente fasciste”, dice il giornalista.
L’indomani, in seguito a un incontro coi delegati della siderurgia di Csepel
assieme al loro presidente Elek Nagy, conclude che l’appello dei fascisti a
liquidare “le conquiste del socialismo” non trova alcun impatto significativo
tra la popolazione. Durante la sua conferenza stampa del 3 novembre,
Mindszenty, le cui prospettive sono chiaramente di patrocinare la ricostruzione
di un partito democratico cristiano, si rifiuta di rispondere alla domanda di
un giornalista ungherese su una sua eventuale candidatura a primo ministro,
abbandonando la sala.
Joszef Dudas
L’Humanité, ancora grazie alla penna di André
Stil, ha designato Joszef Dudas, presidente del Comitato ivoluzionario di
Budapest, come uno dei dirigenti della controrivoluzione “fascista”.[77]
Chi era veramente Dudas? “Un giornalista
fascista”, come scrive Stil? “Un ingegnere”, come scrive il suo compare sul
Daily Worker? Lui stesso si è presentato ai giornalisti come un vecchio
militante comunista, membro del Pc durante l’occupazione nazista, passato nel
1947 al Partito dei piccoli proprietari, arrestato poco dopo, liberato nel 1956
e riabilitato pochi giorni prima dell’inizio della rivoluzione, ancora durante
il regno di Gero. Né L’Humanité né The Daily Worker negano che per un periodo
egli si sia “infilato” nelle fila del Pc.
Dunque, è possibile affermare che, nella misura
in cui Dudas si è espresso pubblicamente durante le giornate rivoluzionarie,
nessuna delle sue apparizioni spettacolari consente di appioppargli l’etichetta
di fascista. Nel suo giornale, Fuggetlentség (Indipendenza), ha pubblicato
quattro articoli i cui temi erano, secondo Anna Kethly, “che non si metta mano
alle riforme economiche del 1945, ritiro delle truppe sovietiche, libertà di
stampa e di associazione, libere elezioni”.[78] Ma sappiamo anche che la
testata del suo giornale del 30 ottobre aveva scritto “Non riconosciamo
l’attuale governo” e che l’indomani è stato ricevuto da Nagy a cui avrebbe
richiesto il portafoglio del Ministero degli esteri.[79] Ricevuto un rifiuto,
assieme ai suoi seguaci si è impadronito del ministero per qualche ora e, per
questo, è stato arrestato su ordine del governo Nagy.[80]
Si trattava di un avventuriero che cercava di
trarre vantaggio dalla rivoluzione? Il suo comportamento può indurre a
pensarlo. È comunque l’ipotesi che si impone dopo la lettura della nota del
comunista polacco Woroszylski, basata sul racconto della sua intervista con
Dudas, e dell’analisi che abbozza in quel frangente. Ma questo prova che per
ottenere risultati un avventuriero ambizioso doveva guardarsi bene
dall’utilizzare un linguaggio fascista. Ciò prova pure che il 3 novembre il
governo Nagy era sufficientemente solido e in sella da poter fare arrestare un
uomo che ostentava funzioni rivoluzionarie importanti come quelle di Dudas.
Stil, raccontando la parabola di Dudas, alla sua maniera, conclude
repentinamente: “È a quel punto che fu arrestato.”[81] Non dice però da chi, et
pour cause: se Dudas fosse stato, come L’Humanité afferma, un autentico fascista
e controrivoluzionario, come spiegare poi che Nagy, secondo Stil artefice della
controrivoluzione, l’abbia fatto arrestare? Queste menzogne sono così
grossolane che basta sfiorarle perché si sbriciolino.
Prospettive per la rivoluzione
ungherese dopo il 4 novembre
I fatti sono chiari. È certo che si siano
espresse tendenze controrivoluzionarie. Non è meno chiaro, come scrive il
comunista Peter Fryer, corrispondente del Daily Worker, nella sua lettera di
dimissioni dal Pc, che “il popolo in armi era del tutto consapevole del
pericolo della controrivoluzione ma anche assolutamente in grado di
schiacciarla lui stesso.”[82] Dopo le dure battaglie della prima settimana,
l’Ungheria ha sperimentato un’autentica esplosione di libertà, tradottasi in
una fraternità fra tutte le classi che si erano opposte ai russi e in una certa
confusione: niente è più tipico dell’apparire dei giornali più diversi, da
quelli “ufficiali”, stampati, a quelli ciclostilati, dattiloscritti o persino
scritti a mano e poi attaccati ai muri. In questa atmosfera alcuni reazionari
hanno potuto infiltrarsi e “ficcare il naso” nel movimento. Niente più di
questo. È comparso un solo giornale reazionario: Virradat (l’Aurora). Ne è
uscito un solo numero perché il giorno seguente gli operai hanno rifiutato di
stamparlo.[83] Ciò non ha trattenuto la stampa borghese occidentale dal parlare
di esplosione di giornali anticomunisti. A noi invece basta ricordare il
giornale Igazsag (La Verità), organo del Partito della gioventù rivoluzionaria,
diretto dal giovane intellettuale comunista Obersovszky, assieme ai giovani
redattori di Szabad Ibjusag, giornale della Gioventù comunista, ed avremo
un’idea più chiara di che cos’era quel preteso “anticomunismo”.
Non menzioneremo che en passant la tesi per cui
la rivoluzione ungherese si indirizzava verso una “democrazia all’occidentale”.
Tutto lo smentisce, tutto l’ha smentito sin dall’inizio: la resistenza operaia,
l’azione dei Consigli, la repressione dei russi contro i settori operai della
rivoluzione. Questa tesi, in ultima analisi, ha avuto un’unica funzione:
fornire agli stalinisti argomenti per giustificare la loro repressione.
L’orientamento della rivoluzione ungherese era
così travolgente che nessuno in Ungheria è potuto sfuggire alla sua influenza,
nessuno ha agito senza tenerlo in considerazione. Sotto questo aspetto, le basi
su cui in Ungheria si sono ricostituiti i partiti piccolo borghesi e riformisti
sono assai significative. Non è per questo decisiva la presenza di dirigenti
riformisti come Bela Kovacs per giudicare correttamente il significato politico
del terzo governo Nagy: è utile invece studiare il loro linguaggio e il
programma comune a base dell’accordo. Di fronte al potere nascente dei Consigli
operai, la restaurazione governativa non poteva procedere che utilizzando un
linguaggio il quale trovasse consenso tra le masse insorte.
Il terzo governo Nagy
L’Ufficio politico del PcfCF ha parlato di
“quelli che furono gli alleati di Hitler, i rappresentanti della reazione e del
Vaticano, rimessi al governo dal traditore Nagy.”[84] La stampa reazionaria
francese è rimasta esemplarmente silenziosa sulla costituzione di questo
governo formato, come l’avevano richiesto i consigli, da rappresentanti di
tutti i partiti democratici e dai capi degli insorti. A fianco dei
comunisti nagysti – Nagy, Kadar, Losonczy – accedevano in effetti al governo
dirigenti dei partiti riformisti socialisti e contadini che sotto Rakosi
avevano avuto un’esistenza legale, sebbene soltanto teorica, e gli eroi
militari dell’insurrezione di Budapest, tra cui Maleter, considerato come il
rappresentante dei “Combattenti della libertà”.
I socialisti
Anna Kethly ha lungamente esposto il punto di
vista del suo partito, sin dalla sua partenza dall’Ungheria. È importante
sottolineare che il 1° novembre, nel giornale di partito, Nepszava,[85]
dichiarava: “Vigiliamo sulle nostre fabbriche e sulle nostre miniere, ed anche
sulla terra che deve restare nelle mani dei contadini.”[86]
Gyula Kelemen, segretario del partito,
utilizzava lo stesso linguaggio. Ricevendo una delegazione di giornalisti
jugoslavi, diceva che il partito socialista “lotterà con la più grande
determinazione per mantenere le conquiste della classe operaia e sosterrà i
consigli operai.”[87]
I dirigenti dei partiti
contadini
Il 21 ottobre a Pecs, nell’assemblea di
ricostituzione del Partito dei piccoli proprietari, Bela Kovacs esclamava: “La
questione è sapere se il partito, rinato, proclamerà di nuovo le vecchie idee.
Nessuno può pensare di tornare indietro al mondo dei conti, dei banchieri e dei
capitalisti; questo vecchio mondo è morto, una volta per tutte. Un autentico
membro del Partito dei piccoli proprietari non può pensare oggi nella maniera
in cui pensava nel 1939 o nel 1945.”[88]
Ferenc Farkas, segretario del partito
nazional-contadino, rinominatosi Partito Petofi, il 3 novembre sottolineava che
“il governo manterrà delle realizzazioni socialiste tutto ciò che può e deve
essere utilizzato in un paese libero, democratico e socialista.”[89]
Pal Maleter, eroe
dell’insurrezione
Infine, c’è Maleter, questo ufficiale
dell’esercito passato con gli insorti sin dalle prime ore. Il difensore, con
millecinquecento giovani operai, studenti e soldati, della caserma Kilian;
Maleter, eroe dei Combattenti della libertà. Chi è? Secondo Stil si tratta di
“un vecchio ufficiale horthysta che ha finto di aggregarsi al potere
popolare.”[90] In realtà è un vecchio comunista convinto al comunismo durante
la prigionia, già allievo delle accademie militari russe, paracadutato in
Ungheria durante la guerra quando fu capo di bande partigiane. L’inviato
speciale del Daily Herald, il laburista Basil Davidson, è andato ad
intervistarlo. Racconta: “Portava ancora la sua piccola stella di partigiano
del 1944 (e un’altra stella rossa ottenuta per l’estrazione di carbone
effettuata dal suo reggimento a Tatabanya), in momenti nei quali tutti gli
ufficiali toglievano le mostrine di tipo sovietico”. Davidson gli domanda le
prospettive per la rivoluzione ungherese. “Se noi ci libereremo dei russi”,
dice, “non crediate che torneremo indietro, al passato. E se ci sono delle
persone che pensano di tornare indietro, allora faremo i conti – e mise la mano
sulla sua rivoltella.”[91]
Il governo della rivoluzione
L’atteggiamento del giovane capo comunista
dell’esercito ungherese era chiaro. Rifletteva l’immagine del governo di cui
era membro e che aveva appena accettato il programma e le istituzioni della
rivoluzione. In suo nome, il comunista Geza Losonczy dichiarava che non si
sarebbero rimesse in discussione “la nazionalizzazione delle fabbriche, la
riforma agraria e le conquiste sociali”. Si dichiarava pronto a battersi per
“l’indipendenza nazionale, l’eguaglianza dei diritti e la costruzione del
socialismo non attraverso la dittatura ma sulla base della democrazia.”[92]
La rivoluzione dei consigli operai aveva appena
portato a termine con successo la prima tappa. Ovunque regnava l’ordine dei
consigli e degli operai in armi. Gli ungheresi, nonostante gli orrori e le
distruzioni, si preparavano a costruire ‘il sol dell’avvenire’. Mikoyan e
Suslov, ritornati, erano ripartiti per Mosca garantendo a Imre Nagy il loro
appoggio. Era il 3 novembre. Quella stessa sera i russi catturavano a
tradimento Maleter ed il suo capo di stato maggiore mentre negoziavano il loro
ritiro. Il 4 lanciarono contro la rivoluzione i loro obici, i loro cannoni ed i
loro autoblindo, mentre la stampa stalinista di tutto il mondo assecondava i
passi degli assassini e suonava la marcia funebre ai rivoluzionari d’Ungheria.
Il dualismo di potere
La rivoluzione polacca aveva scatenato la
rivoluzione ungherese. La vittoria dei consigli operai, sulla base del loro
programma rivoluzionario, è considerata dalla burocrazia dell’URSS alla stregua
di un pericolo mortale. L’8 novembre, Krusciov, in un discorso ai giovani
comunisti di Mosca, ha parlato della gioventù ungherese sollevatasi contro il
regime concludendo sulla necessità, anche in URSS, di “aumentare senza sosta la
vigilanza e attribuire sempre più attenzione all’educazione della gioventù”.
L’effervescenza che caratterizza in quel momento (dicembre 1956 – gennaio 1957)
l’ambiente universitario di Mosca lo prova: la diagnosi era corretta. Il
programma della gioventù rivoluzionaria polacca e di quella ungherese è lo
stesso di quello della gioventù tedesca sollevatasi il 17 giugno 1953 a Berlino
Est, lo stesso dei giovani cecoslovacchi, rumeni e russi. Nel 1940 Stalin ha
assassinato Trotskij ma non ha potuto assassinare il trotskismo, le cui idee trionfano
oggi nei grandiosi sommovimenti rivoluzionari della nostra epoca. I successori
di Stalin hanno svolto il loro compito assassinando decine di migliaia di
militanti rivoluzionari ungheresi e deportandone in URSS altre decine di
migliaia. Ma la rivoluzione continua.
La lotta militare
Malgrado una schiacciante superiorità numerica,
malgrado una schiacciante superiorità nell’armamento pesante, i russi hanno
impiegato più di una settimana per fare cessare ogni forma di resistenza
militare organizzata. “I maggiori centri di resistenza furono i quartieri
operai. Gli obiettivi che i sovietici attaccarono con una rabbia ed una furia
superiori furono le fabbriche metalmeccaniche della ‘periferia rossa’ di
Budapest, i quartieri operai e le industrie dove i comunisti ungheresi avevano
i loro bastioni e i loro militanti più attivi” annota un testimone,[93] ed in
un altro punto: “Sono soprattutto gli operai, i comunisti, i giovani sotto i
vent’anni che si batterono dappertutto a Budapest con vecchi fucili, mitragliatrici
o bottiglie molotov, contro gli autoblindo russi. Fu la fabbrica di Csepel, con
le sue migliaia di operai, avanguardie dei militanti proletari del PC
ungherese, che offrì la maggior resistenza ai carri russi.”[94] Gli operai di
Csepel hanno deposto le armi soltanto dopo dieci giorni di combattimenti
accaniti e, il giorno stesso, hanno deciso di proseguire la lotta per le loro
rivendicazioni, quelle della rivoluzione operaia. I lavoratori di Dunapentele,
la vecchia Sztalinvaros, si sono battuti “per il socialismo” con la direzione
dei loro consigli, fino a quando sono stati travolti dagli autoblindo e
sommersi dalle bombe. I minatori di Pecs hanno resistito nelle loro miniere ed
alcuni vi hanno trovato volontariamente la morte facendosi saltare in aria con
esse. Deportazioni massicce di giovani ungheresi rivelano l’impotenza dei Russi
davanti alla volontà indomabile della gioventù rivoluzionaria.
L’internazionalismo proletario
A partire dal 4 novembre la burocrazia del
Cremlino ha deciso di far intervenire truppe provenienti dall’Asia sovietica,
nella speranza che la barriera linguistica impedisca la fraternizzazione tra
gli operai ed i contadini sovietici in divisa e la gioventù rivoluzionaria
ungherese. Allo stesso tempo i burocrati facevano credere a queste truppe
di essere inviate a difendere il canale di Suez, nazionalizzato da Nasser,
contro la spedizione degli imperialisti anglo-francesi del 4 novembre; ed ai
Combattenti ungheresi toccava di spiegare che il Danubio non era il canale di
Suez …
Combattenti della libertà, convinti della loro
causa, continuarono i loro appelli all’internazionalismo proletario dei soldati
dell’URSS. Il 7 novembre i lavoratori di Dunapentele indirizzarono un appello
alle truppe sovietiche in occasione del 39° anniversario della rivoluzione
russa: “Soldati! Il Vostro Stato è stato creato al prezzo di una lotta
sanguinosa perché voi aveste la vostra libertà. Perché voler schiacciare la
nostra libertà? Potete constatare coi vostri occhi che a prendere le armi
contro di voi non sono stati i padroni delle fabbriche, i proprietari terrieri,
i borghesi ma il popolo ungherese che combatte per gli stessi diritti per i
quali voi avete lottato nel 1917. Soldati sovietici! Avete dimostrato a
Stalingrado come eravate in grado di difendere il vostro paese. Soldati non vi
servite delle vostre armi contro la nazione ungherese.”[95] La risposta è
arrivata: a Budapest il comandante di un’unità di carri armati russi si è
arreso ai Combattenti della libertà. Aveva dovuto sparare contro tre bambini
che cercavano di incendiare il suo carro con una bottiglia di benzina e capì
allora che aveva a che fare con una rivoluzione operaia.[96] Migliaia di
soldati russi disarmati sono riportati in URSS e sistemati in campi. Alcuni si
sono dati alla macchia ed altri nel Nord-Ovest del paese hanno liberato un
treno carico di deportati ungheresi.[97] La rivoluzione ungherese e
l’intervento armato russo diventano così un potente fattore di radicalizzazione
delle masse russe e della volontà rivoluzionaria della gioventù.
Il governo di Janos Kadar
Quando l’esercito russo attaccava la
rivoluzione ungherese, si disegnava una manovra destinata ad ingannare i
lavoratori ed a fornire una copertura all’opera controrivoluzionaria della
burocrazia. Poche ore dopo l’ingresso sulla scena dei blindati, Radio-Budapest,
controllata dai Russi, annunciava la formazione di un “governo rivoluzionario
operaio e contadino” presieduto da Janos Kadar. La personalità di Kadar, la
popolarità derivatagli dalle persecuzioni e dalle torture subite nell’era
Rakosi-Gero ne avevano fatto un leader dei comunisti oppositori prima della
rivoluzione ed un luogotenente di Nagy durante il processo rivoluzionario.
Ancora il 1° novembre aveva dichiarato all’ambasciatore sovietico Yuri Andropov
che, se necessario, avrebbe combattuto “a mani nude”.[98] Quel medesimo giorno
aveva parlato alla radio in nome del governo Nagy di cui era membro. Benché
come ministro degli Interni avesse comunque preso parte al processo contro il
suo compagno Rajk, benché si fosse tenuto estraneo alle attività del circolo
Petofi ed avesse accompagnato Gero a Belgrado, nel corso dei giorni decisivi
sembrava essersi staccato dall’apparato stalinista con la stessa nettezza di
Nagy e Losonczy. Cosa può spiegare una virata così brusca? Cosa è veramente
successo? Kadar, spezzato dalle torture, è diventato forse un corpo privo di
pensiero, uno strumento nelle mani dei poliziotti stalinisti?[99] Ha invece semplicemente
agito come uomo d’apparato cedendo alle pressioni della burocrazia? Non è
possibile stabilire con certezza la questione. È sicuro invece che un governo
con la presenza dirigente di Kadar e formato dal nucleo duro degli stalinisti -
i vari Munnich, Apro e Marosan di cui i consigli avevano richiesto
l’eliminazione - serviva alla burocrazia del Cremlino per creare confusione tra
i lavoratori.
Un passo indietro di fronte ai
consigli
Nei primi giorni di combattimento seguenti al 4
novembre, sembra che l’iniziativa sia stata nelle mani degli elementi più
controrivoluzionari del campo stalinista. In questi termini infatti il
comandante ungherese di Szombathely, unitosi ai russi, annunciava trionfalmente
alla Radio: “I lavoratori hanno colpito. Nelle fabbriche i consigli operai ed i
fascisti sono stati liquidati.”[100] L’8 novembre lo stalinista Ferenc Munnich,
ministro degli Interni e delle Forze armate del governo Kadar, esprimeva
pubblicamente la volontà del Cremlino di annientare il potere dei Consigli
operai dissolvendo i Comitati rivoluzionari dell’esercito, esigendo
l’eliminazione di quelli che battezzava i “controrivoluzionari” dei consigli. I
consigli erano riconosciuti ma il governo toglieva loro ogni rilevanza
decretando che non avevano alcun potere per nominare o licenziare chiunque
all’interno dell’amministrazione, proibendo loro di prendere una qualsiasi
decisione senza l’approvazione di un “commissario politico” che era ormai il
loro tutore.[101]
Ma in realtà, man mano che gli operai erano costretti
a cessare i combattimenti, appariva con chiarezza che, nonostante le
esecuzioni, gli arresti e le deportazioni, i consigli erano rimasti in piedi
ovunque, rinnovatisi per riempire i vuoti che si creavano, portati avanti e
sostenuti da quei lavoratori i quali non riconoscevano altra autorità ed altro
programma eccetto il loro. Sette giorni di combattimento non avevano fatto
indietreggiare la volontà rivoluzionaria delle masse. Bisognava cambiare
tattica. Janos Kadar cominciò a giocare il ruolo che gli era stato affidato.
Kadar cerca di conquistare i
consigli
L’11 novembre Kadar ha dichiarato alla radio
che il governo avrebbe negoziato il ritiro dei russi. I membri del precedente
governo Nagy, a suo dire, “concordano pienamente col suo programma rivoluzionario”
ed hanno altresì manifestato la volontà di collaborare strettamente con lui.
Kadar dice che molti partiti politici potranno partecipare alla vita pubblica.
Mentre condanna il regime instaurato sotto Rakosi e Gero, si lascia sfuggire
che “in Ungheria ci sono persone le quali temono che questo governo reintroduca
i metodi del vecchio partito comunista ed il suo sistema di direzione. Non c’è
un solo uomo in posizione dirigente che immagini di agire in tal senso perché,
anche qualora lo desiderasse, sa che sarebbe spazzato via dalle masse.”[102] Il
12 novembre il quotidiano del Pc britannico è autorizzato ad annunciare che “il
signor Kadar ha avuto un colloquio con Nagy”.[103] Il 14 novembre il dirigente
dei sindacati ungheresi, Sandor Gaspar, afferma che il governo ha riconosciuto
i consigli i quali avranno il diritto, all’interno delle fabbriche, di prendere
le decisioni che i direttori dovranno eseguire. Aggiunge che i consigli
dovranno però essere confermati coi loro nuovi poteri da nuove elezioni.[104]
Il 14 novembre a Budapest si era costituito il
Consiglio centrale degli operai di Budapest, eletto dalla totalità dei consigli
operai della capitale. I componenti del Consiglio centrale sono molto giovani:
la metà ha tra i 23 ed i 28 anni. Alcuni “anziani” hanno conosciuto la
repressione del regime fascista di Horthy prima ancora di quella di Rakosi,
alcuni sono stati militanti socialdemocratici prima di aderire al partito
“comunista”: è il caso di Sandor Bali, delegato alla fabbrica Belojannis di Budapest,
molto ascoltato all’interno del Consiglio centrale. Questo fabbro, assieme al
fabbro diventato ingegnere, Karsai, è la testa politica che ispira la
maggioranza del Consiglio centrale dopo l’eliminazione, iniziata il 15
novembre, dell’ala pro-Kadar diretta da Arpad Balasz. Gli altri militanti che
diventano dirigenti sono il giovane attrezzista Sandor Racz, anch’egli delegato
della fabbrica Belojannis, l’ingegnere ottico Miklos Sebestyen, il fabbro
Ferenc Toke, il delegato della raffineria di Csepel Gyorgy Kamocsai, il
rappresentante dei ferrovieri Endre Mester, tutti rappresentanti della
generazione operaia a cui il nuovo regime ha dato istruzione e qualifica
privandola al tempo stesso di ogni diritto democratico. Dopo la repressione
seguita al 4 novembre, il Consiglio centrale è la sola autorità realmente
riconosciuta a Budapest. Incarna la rivoluzione operaia ed è in contatto
costante coi Comitati rivoluzionari degli studenti e degli intellettuali. È al
Consiglio centrale che Kadar – senz’altro potere che i blindati russi impotenti
di fronte allo sciopero – lancia un appello per trattare la ripresa del lavoro.
Come avrebbe dichiarato in seguito: “Il governo ha trattato più volte col
Consiglio di Budapest valutando che esso avrebbe aiutato i consigli di fabbrica
nella realizzazione dei loro compiti e scopi.”[105]
Fin dal 14 novembre il Consiglio centrale degli
operai di Budapest rende pubbliche le condizioni che pone per la ripresa del
lavoro. Sono le rivendicazioni della rivoluzione: riconoscimento del diritto di
sciopero, ritorno al potere di Imre Nagy, ritiro dei russi, elezioni libere ed
oneste a suffragio universale, abolizione del partito unico e libertà per i
partiti che accettano il regime economico vigente, indipendenza completa
dall’URSS, neutralità dell’Ungheria rispetto ai patti militari internazionali.
Le risposte di Kadar, evasive o positive, tali quali sono state rese pubbliche
l’indomani, testimoniano innanzitutto del suo desiderio di convincere i
delegati dei consigli della purezza delle sue intenzioni, ma anche dei suoi
limiti … Sottolinea le conseguenze economicamente disastrose del prolungamento
dello sciopero, dichiara che “non si pone neppure la questione del ritorno al
potere di Imre Nagy finché si troverà in territorio straniero” (cioè
l’ambasciata jugoslava). Kadar si dice d’accordo, in linea di principio, col
ritiro dei russi: “quando sia sconfitto il pericolo reazionario, le truppe
sovietiche abbandoneranno l’Ungheria”. Kadar promette la costruzione di un
“sistema politico pluripartitico”, “a condizione che tutti i partiti
riconoscano il regime socialista”; domanda inoltre ai Consigli di essere
prudenti sulla questione di elezioni libere, “punto delicato”, perché “il
nostro partito potrebbe essere sconfitto”. Non fa nessuna promessa rispetto
all’uranio ungherese che, così dice, “non potremmo comunque sfruttare da soli”
ma in compenso si impegna a rendere pubblici tutti i futuri accordi economici
con l’URSS. L’idea di neutralità, infine, viene categoricamente rifiutata. Al
Consiglio in rivolta contro le deportazioni dichiara: “Abbiamo raggiunto un
accordo col Comando sovietico sulla base del quale nessuno deve essere
deportato dall’Ungheria.”[106]
Appena viene resa nota, la risposta di Kadar è
discussa dai consigli operai. La sera di quella stessa giornata, il 15
novembre, i delegati del Consiglio centrale di Budapest registrano la volontà
operaia di non porre fine allo sciopero prima di aver ottenuto il
soddisfacimento delle rivendicazioni essenziali. In riunione nella sede della
Compagnia dei trasporti di Budapest, i delegati votano la continuazione dello
sciopero generale. L’ottenimento di due rivendicazioni centrali potrebbe,
secondo loro, motivare un cambiamento della loro linea: il ritorno al potere di
Imre Nagy e l’allontanamento da Budapest e a breve termine da tutto il paese
delle truppe, elemento chiave “nell’interesse del mantenimento di una relazione
fraterna con l’Unione Sovietica”.[107] Vale ricordare che il Consiglio centrale
non abbandona le rivendicazioni presentate il giorno prima. Ma il ritorno al
potere di Imre Nagy, di cui Kadar ha lasciato intravedere la possibilità, e la
partenza dei russi sarebbero la garanzia che i russi sono pronti ormai a
consentire che la vita politica ungherese si sviluppi senza interventi esterni.
Realista, il Consiglio ipotizza una ritirata graduale. Diffidenti, i suoi
delegati avvertono Kadar che si riservano il diritto di ricorrere nuovamente
allo sciopero, se lo ritenessero necessario, al fine di ottenere le altre
rivendicazioni. È chiaro che in quel momento i componenti del Consiglio di
Budapest pensano che continuando lo sciopero sia possibile che Kadar ed i russi
cedano sui due punti fondamentali. Per parte sua Kadar vuole mantenere questi
“interlocutori credibili”. In piena riunione del Consiglio, la sala è invasa
dai soldati russi appoggiati da due carri e tre autoblindi.[108] Kadar,
raggiunto telefonicamente, si scusa coi delegati operai ed intercede presso il
Comando russo perché vengano ritirate le truppe. Questo episodio induce senz’altro
alcuni membri del Consiglio a pensare che Kadar sia il difensore dei consigli
presso i russi e persegua una politica del male minore conveniente da
cavalcare. In verità il ‘gioco’ di Kadar, il seguito lo avrebbe dimostrato, non
consisteva nell’imporre ai russi il punto di vista dei consigli ma al contrario
ad imporre ai consigli la volontà dei russi.
Primi frutti dell’azione di
Kadar
La fame ed il freddo stavano diventando gli
alleati più preziosi di Kadar. Le sofferenze sopportate durante e dopo i
combattimenti, la stanchezza e le privazioni non avrebbero potuto, esse sole,
demoralizzare i lavoratori. Ma, aggiungendosi alle promesse di Kadar che
lasciava intravedere una possibile via d’uscita pacifica, esse hanno
contribuito ad alimentare la demoralizzazione nella classe operaia. Sembra che
proprio questi due elementi siano stati decisivi per spingere gli operai di
Csepel alla ripresa del lavoro.
I metalmeccanici di Csepel sono stati l’ariete
della rivoluzione. Si sono battuti fin dal 23 ottobre. La mattina del 4
novembre resistono all’attacco portato dai russi contro la loro fabbrica. Nel
corso di quella battaglia accanita gli operai della “Billancourt”[109]
ungherese hanno perso molti dei migliori combattenti rivoluzionari. Nonostante
ciò, il giorno in cui consegnano delle armi votano pure la continuazione dello
sciopero. I contadini li riforniscono.[110] Il governo vieta allora ogni
scambio di alimenti al di fuori del controllo dei suoi organismi. Kadar
moltiplica promesse e pressioni, facendo intravedere la possibilità di un
accordo: molti lavoratori di Csepel, che hanno subito più di altri, vorrebbero
curare le loro ferite. È questa la prima vittoria di Kadar, parziale soltanto
ma che sfrutterà sino in fondo. I dirigenti operai del consiglio di Csepel
pensano di poter riprendere il lavoro senza rinunciare alle proprie
rivendicazioni operaie: “Vogliamo certamente riprendere il lavoro nelle
fabbriche di Csepel”, dichiara il loro manifesto uscito la sera del 15
novembre, “ma alla sola condizione che proseguano le trattative tra governo e
operai e che le nostre rivendicazioni siano accettate. Continueremo la lotta
per la realizzazione completa delle idee della nostra rivoluzione, poiché ci
sentiamo abbastanza forti per eseguire il testamento dei nostri eroi caduti
nella lotta di liberazione… Niente al mondo può privarci di quest’arma
invincibile che è lo sciopero, qualora i negoziati col governo
fallissero.”[111]
Il peso degli operai di Csepel nel proletariato
di Budapest ed il peso dei suoi delegati nel Consiglio centrale sembrano avervi
fatto pendere la bilancia a favore dei “conciliatori”. Kadar fa pressione sui
delegati in nome delle necessità materiali. Ripete che la continuazione dello
sciopero è un “suicidio nazionale”. Ripete che la ripresa del lavoro, il
“ristabilimento dell’ordine”, sono la precondizione di un qualsiasi successivo
passo in avanti. Senz’altro alcuni conciliatori pensano che si debba “aiutare”
Kadar, il quale, ottenuta la fine dello sciopero, sarebbe in una posizione di
maggior forza per strappare alcune concessioni ai russi. Dopo una lunga notte
di discussione sono i conciliatori a riportare la vittoria, con una maggioranza
risicata.
La mattina del 16 novembre il Consiglio
centrale degli operai di Budapest lancia un appello per la ripresa del lavoro:
“Consapevoli della responsabilità verso la nostra patria ed il nostro popolo,
che hanno tanto sofferto, dobbiamo dire che nell’interesse dell’economia
nazionale, per ragioni sociali ed umanitarie, ed in seguito a determinate
circostanze, si rende assolutamente necessaria la ripresa del lavoro
produttivo.
In
questa tragica situazione, il vostro buon senso, la vostra consapevolezza ed il
vostro spirito operaio vi ordinano categoricamente di riprendere il lavoro,
mantenendo i vostri diritti, per sabato 17 novembre.
Proclamiamo con solennità che tale decisione non significa in nessun modo che
noi abbiamo abbandonato, fosse pure una virgola, gli obiettivi e le conquiste
della nostra insurrezione nazionale.
I
negoziati continuano e siamo convinti che, grazie agli sforzi reciproci, le
questioni in sospeso saranno risolte per il meglio.
Chiediamo la vostra fiducia ed il vostro unanime aiuto.”[112]
È evidente che tale posizione è lungi
dall’essere condivisa da tutti gli operai. Quel giorno stesso alcuni delegati
sono revocati dalla base che rimprovera loro di non aver rispettato le
decisioni prese la vigilia dopo le discussioni tra gli operai. Molti consigli
protestano ricordando le condizioni poste dallo stesso Consiglio centrale per
la ripresa del lavoro: ritorno al potere di Imre Nagy e ritiro dei Russi da
Budapest.[113] L’opposizione si esprime pubblicamente: un volantino diffuso il
17 rivela che Kadar ha minacciato di deportare i membri del Consiglio nel caso
in cui il lavoro non fosse ripreso. Il 18 una delegazione operaia chiede al
Consiglio centrale di fare un appello a tutti i consigli di provincia perché
eleggano un Consiglio nazionale, un Parlamento operaio che, eletto dall’insieme
dei lavoratori ungheresi, sarebbe l’unico organismo col potere di trattare in nome
di tutti.
Le tendenze politiche
all’interno dei consigli
Il Consiglio centrale di Budapest, sommerso da
un’ondata di proteste e constatando che il suo appello alla ripresa del lavoro
non è stato seguito, fa sua la proposta ed inizia a preparare la riunione del
Consiglio nazionale per la quale solleciterà tra l’altro un’autorizzazione
ufficiale che verrà negata.[114] La situazione di Budapest sembra analoga a
quella di Csepel dove, il 19 novembre, il 30% degli operai entra in fabbrica ma
nessuno lavora. Un portavoce dichiara: “Riteniamo che sia la sola cosa
ragionevole che possiamo fare in questo momento. Siamo qui in fabbrica perché
abbiamo bisogno del nostro salario ed anche perché la presenza in fabbrica
aiuta a raggrupparci. Se continuavamo a resistere nelle nostre case, i cancelli
delle fabbriche sarebbero stati chiusi, rendendo più facile al governo il
compito di occuparsi di noi individualmente a casa nostra piuttosto che di
farlo nelle fabbriche dove siamo riuniti.”[115]
Ma la provincia si rivelerà molto meno propensa
alla conciliazione che la maggioranza – ristretta, è vero – dei componenti del
Consiglio centrale di Budapest. Il fatto non ha nulla di straordinario. A
Budapest i consigli operai sono nati quando l’insurrezione era già iniziata. I
primi combattenti operai hanno raggiunto i distaccamenti formati dal Comitato
rivoluzionario degli studenti. Lo sciopero generale ha fatto seguito
all’insurrezione provocata dall’attacco dell’Avh contro le manifestazioni del
23 ottobre. Durante l’insurrezione i consigli operai, isolati gli uni dagli
altri, non hanno avuto modo di centralizzarsi. I lavoratori in lotta con gli
insorti si sono messi sotto gli ordini di vari organismi: il Comitato degli
studenti, il Comitato nazionale rivoluzionario di Dudas, il Comitato
dell’esercito. Molti operai mescolati agli altri Combattenti della libertà
seguivano Maleter, altri ancora il governo Nagy. La forza organizzata della
classe operaia, coi suoi consigli eletti nelle aziende, le sue posizioni in
fabbrica - in altri termini i suoi bastioni industriali - è apparsa soltanto
quando la repressione, abbattendo gli organismi nati dall’insurrezione e i
comitati locali, ha attaccato direttamente gli embrioni di un nuovo potere. I
militanti dirigenti dei consigli operai hanno costituito il Consiglio centrale,
su proposta del consiglio di Ujpest, perché erano coscienti che solo
l’organizzazione su base di classe dei consigli poteva dare alla classe operaia
la forza per difendere le conquiste dell’Ottobre per conto dell’intera popolazione.
A proposito del Consiglio centrale, è utile osservare che se è diventato
l’organismo più rappresentativo della resistenza operaia organizzata, a
Budapest si è scontrato con una concentrazione sproporzionata di forze armate
russe ed all’apparato amministrativo, ridotto ma reale, formato da ex Avos che
spalleggiavano il governo Kadar. In provincia, inversamente, l’insurrezione è
scaturita dallo sciopero generale e i consigli operai, dopo averlo diretto,
hanno assunto direttamente il potere. Hanno spazzato via l’amministrazione
stalinista, dato ordini alle forze armate, ed il governo Nagy ha tratto la
propria forza dal loro appoggio. Durante il periodo dell’“indipendenza” hanno
realmente esercitato il potere. Dopo l’attacco del 4 novembre sono rimasti nei
fatti la sola autorità davanti ai comandi russi, una volta squagliatisi
l’apparato del partito e dello Stato. In alcune città il comando russo ha
trattato con loro. Così a Miskolc la radio continua a trasmettere liberamente e
i russi si rifiutano di intervenire per far riconoscere il governo Kadar, a
patto che i suoi soldati non vengano attaccati. I consigli operai di provincia
sono così molto meno inclini al compromesso rispetto al Consiglio centrale,
sottoposto ad una maggiore pressione. Questi consigli hanno il potere e
l’esigeranno per tutti i consigli.
Lo scontro coi burocrati è inevitabile. Un
portavoce dei sindacati, seguace di Kadar, dichiara in effetti il 19, secondo
quanto riporta Stil: “Ci sono ancora in Ungheria compagni i quali non credono che
la formazione di consigli sia positiva e non vedono che i pericoli della loro
azione… Finora tali consigli, allontanandosi dal loro ruolo di organismo
economico locale, limitato alla singola impresa, pretendendo di assumere una
funzione di potere politico o di sostituirsi ai sindacati, o di organizzarsi in
comitati cittadini, regionali o nazionali, hanno portato soltanto verso una
situazione di caos anarchico.”[116] La situazione è chiara. All’interno della
burocrazia un’ala è tenacemente opposta all’esistenza stessa dei consigli,
un’altra è pronta a tollerarli qualora si limitino a “funzioni di
organizzazione economica locale”. Una parte dei consigli, di contro, è decisa a
“giocare il ruolo di organismo del potere politico”. Avendo il Consiglio di Budapest
ceduto alle pressioni dei burocrati, i lavoratori fanno appello al Consiglio
nazionale rispetto alla decisone di porre fine allo sciopero.
Il Consiglio nazionale operaio
La riunione del Consiglio nazionale operaio,
una sorta di parlamento operaio, doveva iniziare alle ore 9 del 21 novembre
presso il Palazzo dello sport di Budapest. Quando i delegati si presentarono
trovarono i lati della sala bloccati dalla polizia e dall’esercito, rinforzati
dai carri russi. Decisero allora di riunirsi al locale del Consiglio centrale,
alla sede della Compagnia dei trasporti. Nessun giornalista poté assistere a
quella riunione, durata cinque ore, nell’edificio accerchiato dalla polizia che
la tollerava come sessione “allargata” del Consiglio di Budapest.
La prima decisione del Consiglio nazionale fu
di accantonare l’ordine di ripresa del lavoro lanciato dal Consiglio centrale
di Budapest, seguito da non più di un quarto dei lavoratori. Il Consiglio
nazionale fece appello alla ripresa dello sciopero per 48 ore, in segno di
opposizione alle misure prese contro la sua riunione ed ai tentativi
governativi di impedirla. L’ordine di sciopero era valido per tutta
l’industria, salvo quella alimentare. Al termine delle 48 ore, la condizione
per la ripresa del lavoro era il riconoscimento da parte del governo Kadar del
Consiglio nazionale operaio eletto democraticamente come la sola rappresentanza
autentica dei lavoratori ungheresi. Se questa domanda fosse stata accettata, il
lavoro sarebbe ripreso il 24 novembre contemporaneamente ai negoziati tra il
governo e i delegati del consiglio nazionale operaio. Questi avrebbero avuto
come oggetto le rivendicazioni della classe operaia, le stesse avanzate il 15
novembre dal Consiglio centrale: ritorno al potere di Imre Nagy, liberazione dei
prigionieri tra cui figura Maleter, ritiro dei russi ed abbandono del paese,
elezioni libere con tutti i partiti, libertà di stampa e di riunione,
indipendenza dell’Ungheria. Le discussioni tra il governo ed il Consiglio
avrebbero dovuto essere pubblicate con esattezza sulla stampa. Il governo
avrebbe dovuto manifestare “la sua buona fede liberando immediatamente i civili
ed i militari fermati, arrestati e deportati”,[117] “deferendo davanti ai
tribunali ungheresi per giudizi pubblici coloro che sono incolpati per delitti
comuni”.[118] La risposta della classe operaia ungherese era netta. Prima di
consegnare le armi esigeva garanzie serie. Era ancor più significativa la
rivendicazione del Consiglio nazionale di essere riconosciuto unica autorità in
grado di rappresentare autenticamente i lavoratori ungheresi. Con la formazione
del Consiglio nazionale operaio prendeva forma quel movimento “unito e potente”
reclamato sin dal 28 ottobre da parte del consiglio operaio di Miskolc, questi
“stati generali dei consigli operai” che Nagy voleva realizzare. Si era davanti
alla rivendicazione sostenuta dalla classe operaia di esercitare il potere per
mezzo delle sue organizzazioni autonome di classe, dei suoi soviet, i consigli
locali e regionali, del suo Consiglio nazionale. Il braccio di ferro era
inevitabile tra la classe operaia e i burocrati, determinati per loro conto a
soffocare o a svuotare di sostanza i consigli. Però, nello scontro tra un
governo che aveva una strategia nei confronti dei lavoratori e preparava scrupolosamente
i suoi colpi, da una parte, e una direzione operaia priva di esperienza, senza
quadri politici rivoluzionari formati, dall’altra, tra la burocrazia dotata di
politicanti capaci di manovrare ed i consigli operai cui mancava il sostegno e
l’organizzazione di un partito rivoluzionario come il partito bolscevico del
1917, ci fu bisogno di tempo e di numerose esitazioni della giovane direzione
perché la situazione diventasse chiara.
Il governo Kadar manovra e
temporeggia
I burocrati capivano che era troppo presto per
puntare ad una prova di forza. I comitati rivoluzionari formatisi ad ogni
livello dell’amministrazione e dello Stato costituivano un ostacolo piuttosto
ingombrante per l’azione della burocrazia. Dal 22 il governo decise di passare
all’attacco, della rivoluzione, che si era riuscitaad installare nel cuore
dello Stato, nei ministeri. “I comitati rivoluzionari dei ministeri vogliono
prendere decisioni che superano la loro competenza e non favoriscono né la
ripresa del lavoro né il ristabilimento dell’ordine”, dichiarava Radio-Budapest
che aggiungeva: “Il governo ha dato l’ordine ai direttori dei ministeri di
ridurre l’attività di questi comitati e di accettare i loro suggerimenti solo
se sono realmente costruttivi”.[119]
Quello stesso giorno il consiglio operaio di
Csepel, fedele alla linea condensata nella sua risoluzione del 16, si
dichiarava contrario allo sciopero di 48 ore deciso dal Consiglio nazionale e
condiviso dal Consiglio operaio centrale di Budapest. Dopo aver protestato contro
la decisione governativa di mettere al bando il Consiglio nazionale, dopo aver
chiesto di “porre termine alle misure contro gli operai ed i loro
rappresentanti”, il consiglio di Csepel considerava “un grave errore” la
consegna dello sciopero, poiché “ciò rende la situazione economica ancora più
difficile”. Si chiedeva inoltre al Consiglio di Budapest di “ammettere che il
periodo dell’irruenza e del libero sfogo delle passioni è da archiviare” e che
l’arma dello sciopero deve essere utilizzata “in maniera più ragionevole”.[120]
La presa di posizione dei lavoratori di Csepel
parve, ancora una volta, decisiva. La mattina del 23 Radio Budapest annunciava
che la notte precedente era stato firmato un accordo per la ripresa del lavoro
tra Kadar ed il Consiglio operaio centrale di Budapest. Veniva riconosciuta
l’autorità dei consigli dentro la fabbrica, compresa la facoltà di nomina dei
direttori. Riprendevno le trattative tra governo e consigli, ma il Consiglio si
riservava di ricorrere nuovamente all’arma dello sciopero.[121] Senza dubbio
gli elementi conciliatori potevano vantare di essere riconosciuti dal loro
proprio consiglio, come implicava l’annuncio alla radio di un accordo concluso
tra essi ed il governo Kadar. Tuttavia, sembrava proprio che la dichiarazione
del 23 novembre, quello stesso giorno, da parte dell’Unione degli Scrittori,
indicasse una posizione più ferma di fronte al governo, poiché dopo aver
approvato l’operato dei consigli “in difesa delle conquiste sociali”, l’Unione
degli scrittori “consiglia la ricerca di un accordo per la ripresa del lavoro
senza fare concessioni sulle rivendicazioni fondamentali”.[122] Ancor più della
presa di posizione degli scrittori, in cui ritroviamo l’influenza di Tibor
Dery[123], l’opposizione operaia fu netta. Un giornalista, dopo aver discusso
coi dirigenti del Consiglio centrale di Budapest il 23, riferì quanto segue:
“Il Consiglio riconosce che l’ordine di ripresa non è stato seguito; aggiunge
di aver ricevuto centinaia di telefonate che reclamavano la continuazione dello
sciopero contro il rapimento di Imre Nagy.”[124]
Il rapimento di Imre Nagy
In effetti, il 4 novembre Nagy aveva richiesto
asilo presso l’ambasciata jugoslava a Budapest. Con lui c’erano i suoi amici
Geza Losonczy, Ferenc Donath, Janos Szilagyi, veterani comunisti, la vedova di
Rajk, Gabor Tanczos, il segretario del circolo Petofi, in totale una trentina
di persone. Tra loro figuravano anche Lukacs, il filosofo, Zoltan Szanto, ex
ambasciatore a Parigi e il vecchio comunista Zoltan Vas. Questi ultimi tre
avevano lasciato l’ambasciata senza più ricomparire in pubblico. Il 21
novembre, però, era stato firmato un accordo tra i governi ungherese e
jugoslavo per garantire a Nagy ed ai suoi compagni la possibilità di rientrare
liberamente al proprio domicilio.
Avevamo già osservato che il giornale comunista
inglese annunciava che Kadar si era trovato con Nagy. Già il 14 novembre,
spazzando via le calunnie a proposito del “traditore Nagy”, Kadar aveva
dichiarato pubblicamente: “Non credo che Nagy abbia coscientemente aiutato la
controrivoluzione. Né il governo né i Russi desiderano limitare la sua
libertà.”[125]
Davanti ai consigli operai Kadar aveva parlato
di “negoziati” con Nagy appena egli fosse rientrato in territorio ungherese.
L’accordo realizzato tra il governo jugoslavo e Kadar, rivelato da fonte
ufficiale jugoslava il 23 novembre, andava in direzione delle promesse di
Kadar. La liberazione di Nagy non poteva che significare la ripresa delle
trattative con lui e la soddisfazione almeno parziale della richiesta degli
operai i quali esigevano il suo ritorno al potere. Nagy, uscito
dall’ambasciata, ha realmente discusso con Kadar alla sede del Parlamento?
Entrambi, come ritiene il corrispondente della Reuter, studiavano l’ipotesi di
un governo di coalizione. Un governo Nagy-Kadar? Il ruolo di Kadar e le sue
intenzioni reali sono poco chiare. Non è comunque l’elemento decisivo. I fatti
sono indiscutibili, che Kadar abbia agito coscientemente oppure no, che abbia
ingannato Nagy e gli jugoslavi o che sia servito da esca per attirare Nagy
fuori dal suo rifugio e permettere così ai russi di catturarlo. È infatti sulla
base della promessa di Kadar che Nagy è uscito ed è grazie a questa promessa
subito violata che è stato arrestato dai russi. Che sia stato o meno informato
dell’operazione, Kadar l’ha comunque coperta facendo annunciare la partenza
volontaria di Nagy per l’Ungheria. Ha fatto poi di più e ha rinnegato le
proprie dichiarazioni della vigilia sostenendo: “Quest’uomo è diventato il
fantoccio dei controrivoluzionari e degli horthysti.”[126]
Il Consiglio di Budapest ed il
rapimento di Nagy
Il rapimento di Nagy da parte dei russi ed la
ritrattazione della parola data per parte di Kadar condannavano senza appello
la prospettiva dei conciliatori. Nelle parole di un portavoce del Consiglio in
seguito al discorso di Kadar su Nagy, “Kadar, il quale aveva detto agli operai
una settimana fa: ‘Riportate Nagy e sarò felice di cedergli il posto’, si è ora
allineato al punto di vista sovietico affermando che ‘la questione Nagy è
chiusa’”. Lo stesso operaio constatava la falsità dell’opinione diffusa tra i
conciliatori che introduceva una distinzione tra Kadar ed i russi precisando:
“Kadar ha ora un atteggiamento rigido ed utilizza argomenti fondati sulla
presenza di 5mila carri armati.” Nonostante ciò il Consiglio di Budapest
manteneva le sue rivendicazioni sul ritorno al potere di Nagy e sul ritiro dei
russi: “Non cederemo ed il governo lo sa. Il ritorno al potere di Imre Nagy è
stato e resta la nostra rivendicazione centrale. Qualunque cosa accada, alla
fine vinceremo.”[127] L’appello tuttavia si chiudeva con una prova della
volontà di arrivare ad ogni costo ad una conciliazione, aggiungendo:
“Nell’interesse della popolazione chiediamo ciononostante ai Consigli di
continuare la produzione ed anche di intensificarla.”[128]
Allora, mentre si poteva supporre che il
tradimento di Kadar verso Nagy avrebbe irrigidito la posizione dei componenti
del Consiglio di Budapest appena ingannati, si assistette invece a continui
cedimenti. Il 20 novembre un portavoce del Consiglio lasciava intendere che gli
operai fossero pronti a rinunciare al ritorno di Nagy a patto che “questi
affermasse personalmente che rifiuta di guidare un nuovo governo.”[129] Secondo
il parere dei delegati che avevano discusso con Kadar, sarebbe stato al momento
preferibile tralasciare la questione del ritorno al potere di Imre Nagy:[130]
avvertirono Kadar che “potrebbero scoppiare scioperi spontanei se agli operai
ungheresi non fosse detta la verità su quello che succede ad Imre Nagy.”[131]
Ben presto, tuttavia, i burocrati avrebbero distrutto tutte le illusioni sul
loro conto: ottenuto un passo indietro sarebbero passati all’attacco cercando
di demolire i consigli. Sparirono così i conciliatori: davanti all’assenza di
una conciliazione…
Il problema dell’esistenza dei
consigli
Sam Russel, corrispondente del Daily Worker,
organo del partito comunista britannico, fu per conto del suo giornale a
Csepel. Certamente sperava di trovare nelle conversazioni coi dirigenti di quel
consiglio la prova che gli operai di Csepel iniziavano a sostenere il governo.
Invece, suo malgrado, dovette riportare esattamente il contrario. I dirigenti
degli operai di Csepel, infatti, si erano opposti allo sciopero ma non per
solidarietà con Kadar. Così Russell descrisse la “confusione” che si stava
producendo ed annunciò una lotta diretta tra Kadar ed i consigli: “Ho parlato
col segretario del consiglio operaio provvisorio, Bela Szenetzy, col vice
presidente Pal Kupa e con un altro membro del consiglio, Jozsef Devenyi. Dalle
conversazioni avute emerge chiaramente che c’è ancora molta confusione rispetto
al ruolo del consiglio operaio, divenuto ormai un organismo permanente in virtù
della nuova legge. È ancora viva l’idea che essi potrebbero combinare assieme
la funzione di datori di lavoro e di sindacato assumendo una sorta di generica
funzione politica.”[132] Da analisi come questa troviamo la conferma che i
consigli, compreso quello di Csepel, volessero giocare un ruolo politico,
essere l’organo del potere operaio. Prestiamo attenzione al giornalista
comunista britannico mentre spiegava le ragioni avanzate dal Consiglio operaio
di Budapest per giustificare la sua contrarietà allo sciopero: “Continuare lo
sciopero potrebbe fare più male che bene agli operai. Era preferibile
guadagnare un po’ di soldi per comprare di che mangiare piuttosto che essere
costretti dalla fame a tornare al lavoro.”[133].
I dirigenti di alcuni consigli, particolarmente
quelli del Consiglio centrale di Budapest, erano convinti che lo sciopero
sarebbe stato dannoso. Mantennero però la loro idea rispetto al ruolo dei
consigli operai, il ruolo della classe operaia. E su quel punto non c’era
alcuna conciliazione che fosse proponibile. In assenza di un’organizzazione
d’avanguardia che consentisse di unificare esperienze e prese di posizione,
c’era tuttavia bisogno di tempo perché un organismo politico come il Consiglio
centrale raggiungesse l’omogeneità politica traducendo quella della classe in
azione; il clima creato dai combattimenti di strada, e poi dalla repressione,
non favoriva per niente il prevalere della democrazia politica, condizione per
una chiarificazione. Già il 14 novembre il presidente del Consiglio operaio
centrale, Arpad Balasz, si era permesso di lanciare alla radio, in nome del
Consiglio centrale, un appello a favore della ripresa del lavoro. La
maggioranza del Consiglio operaio lo sollevò allora dalle sue funzioni
ritenendo che giocasse, coscientemente o no, a favore di Kadar, e vietò al
tempo stesso che i suoi membri facessero dichiarazioni su questioni non
sottoposte precedentemente ad una votazione. Il nuovo presidente del Consiglio
centrale fu eletto tra i delegati di Csepel: si trattava di Jozsef Devenyi.
Alcuni giorni dopo, tuttavia, in seguito ad atteggiamenti temporeggiatori,
anche Devenyi diede le dimissioni dopo essere stato messo in minoranza e sotto
accusa davanti al Consiglio centrale. A quel punto, il giovane fabbro di
Belojannis, Sandor Racz, di 23 anni, divenne il presidente, affiancato dal suo
compagno di fabbrica Bali e da Karsai come vicepresidenti. Questi tre uomini
sarebbero stati fino alla fine i portavoce del Consiglio operaio centrale.
Toccò al vicepresidente, l’attrezzista fabbro
Sandor Bali, il 25 novembre, esprimere davanti al governo, per convincerlo ad
intavolare negoziati, una concezione del ruolo dei consigli operai che era, in
tutta evidenza, il frutto di un compromesso occasionale:
“È la classe operaia, disse, che ha messo in
piedi i consigli operai i quali, al momento, sono gli organismi economici e
politici che hanno dietro di sé la classe operaia […] Sappiamo bene che i
consigli operai non possono essere delle organizzazioni politiche. Sia chiaro
che ci rendiamo perfettamente conto della necessità di avere un partito
politico ed un sindacato. Ma, visto che ora non abbiamo la possibilità pratica
di costruire tali organizzazioni, siamo obbligati a concentrare le nostre forze
su un solo punto ed attendere il seguito degli avvenimenti. Non dobbiamo e non
possiamo parlare di sindacati prima che gli operai ungheresi abbiamo formato
dal basso i loro sindacati e sia stato loro ridato il diritto di
sciopero.”[134]
Tuttavia, i fatti spinsero inesorabilmente il
Consiglio operaio centrale a svolgere un ruolo politico. Nelle parole di uno
dei suoi componenti, Ferenc Toke, Karsai fu portato a “dire ai dirigenti che
noi avevamo una missione economica da realizzare, che non tenevamo per niente a
svolgere un’attività politica, ma che la loro doppiezza ci obbligava a
farlo.”[135] Così il 26 novembre il Consiglio centrale informò Kadar che, oltre
alle sue rivendicazioni iniziali – ritorno di Nagy al potere, partenza dei
ussi, fine delle deportazioni – portava avanti la volontà degli operai di
organizzare una milizia operaia armata e di avere propri giornali.[136] I
consigli avevano ben compreso che il loro potere e la loro autorità non
sarebbero valse nulla finché non avesse disposto di una propria forza armata:
tale forza non poteva essere altro che il popolo in armi. Reclamavano
l’organizzazione di milizie operaie. Rifiutavano il monopolio sulla stampa
stabilito a beneficio della burocrazia che autorizzava solo i suoi giornali di
partito e sindacali. I consigli volevano pubblicare le proprie posizioni, dare
le loro parole d’ordine, fare bilanci, discutere. Manifestavano con chiarezza
che avevano l’intenzione di opporsi allo “Stato dei gendarmi e dei burocrati”
denunciato da Dery: gli si volevano opporre, reclamavano una propria forza
armata ed una propria stampa. Kadar dichiarò a L’Humanité che erano “gli
elementi controrivoluzionari ad aver presentato richieste non
realistiche.”[137] Dunque, Kadar, dopo aver riconosciuto i consigli, fece
sapere, una volta lanciato l’ordine di rientro al lavoro, che essi erano
autorizzati a discutere i “problemi del lavoro”…[138] Il Consiglio operaio
centrale preparò, sotto la direzione di Sebestyen, la pubblicazione del suo
giornale, Munkasujsag (Gazzetta operaia): venne confiscato in stamperia assieme
ad un resoconto di una discussione in cui Kadar aveva dichiarato: “Per me il
vostro riconoscimento conta poco. 200mila soldati sovietici sono dietro di me.
In Ungheria comando io.”[139] Il Consiglio fece allora uscire un foglio
ciclostilato: le autorità russe perquisirono e confiscarono il ciclostile.[140]
In reazione il Consiglio centrale organizzò una giornata di boicottaggio del
giornale di partito Nepszabadsag: i lavoratori lo comprarono e poi in strada lo
strapparono senza leggerlo. Ferenc Toke scrisse: “Le persone camminavano con i
fogli di giornale che arrivavano alle caviglie.”[141] Il Consiglio centrale
decise la distribuzione di volantini talvolta dettati e ricopiati a mano per
dare informazione della propria azione ed invitò tutti i consigli ad
imitarlo.[142] I delegati del consiglio tornarono a vedere Kadar. “Sarà una
serata decisiva, dichiarò uno di loro alla stampa, se le trattative falliscono
non c’è alcuna garanzia che riusciremo ad impedire scioperi spontanei tra gli
operai.”[143] Chiesero la modifica della legge sui consigli e
l’autorizzazione ad istituire consigli non solo nelle fabbriche ma in tutti le
imprese statali, dalle ferrovie alle poste ecc. dove essi non erano
autorizzati, nonché il diritto alla pubblicazione di giornali per difendere le
proprie posizioni.
Nepakarat, organo dei sindacati, fu incaricato
di rispondere alle tre rivendicazioni fondamentali dei consigli: valenza
politica dei consigli operai, creazione di consigli regionali in ogni provincia
e pubblicazione di un giornale centrale. A parere dell’organo dei sindacati si
trattava di rivendicazioni “distruttive”: i consigli “non potrebbero assumere
un qualsiasi ruolo politico ma unicamente economico”; il giornale centrale dei
consigli non era assolutamente “necessario” e la creazione di consigli
regionali “non corrisponderebbe ai compiti dei consigli operai” Nepakarat
sintetizzava quali sarebbero stati invece questi compiti: fare il proprio dovere
sul terreno economico riorganizzando le fabbriche. [144] La burocrazia era
disposta ad accettare l’esistenza dei consigli a patto che essi fossero docili
collaboratori nell’amministrazione della fabbrica. La burocrazia intendeva
conservare il monopolio della direzione dello Stato, della vita politica e
della stampa. O i consigli si inchinavano ai suoi diktat o li distruggerà
avrebbe distrutti. Non c’era una via di mezzo che permettesse una
conciliazione. Per Kadar ed i burocrati russi era necessario che la classe
operaia ed i suoi consigli rinunciassero al potere.
L’offensiva dei burocrati
Il 4 dicembre il governo scaglia la sua
offensiva. Essa è diretta contro i comitati rivoluzionari. Fino a quel momento
i soli ad essere sciolti sono stati quelli dell’esercito. Secondo un comunicato
governativo i comitati “non tenevano in considerazione le disposizioni
governative che avevano regolamentato la loro attività, delimitato il loro
campo d’azione, fissato le loro attribuzioni.”[145] “L’esperienza mostra che i
comitati non svolgevano alcuna attività di interesse pubblico ma al contrario,
quando c’erano, la loro azione consisteva nell’ostacolare il lavoro delle
autorità statali e la realizzazione di compiti utili all’interesse
pubblico.”[146] I comitati rivoluzionari sono dunque sciolti da un decreto
firmato da Ferenc Munnich, il quale al contempo indica l’esistenza e la
dissoluzione di un “Comitato esecutivo centrale dei comitati
rivoluzionari”.[147] Miklos Gimes, rifiutatosi di emigrare, è arrestato il 5 dicembre.
A questo punto, pensando che cederanno davanti
alla minaccia ed all’intimidazione, il governo lancia la polizia contro i
dirigenti dei consigli operai. Nella notte del 6 dicembre ne sono arrestati più
di un centinaio. Il Consiglio centrale è “letteralmente sommerso di proteste
contro gli arresti di membri di consigli operai.”[148] Il 7 il Consiglio
centrale lancia un appello. Agli operai, ai quali denuncia il “fronte
organizzato in tutto il paese contro i consigli operai”, dichiara: “Se questo
atteggiamento continua, perderemo la sola possibilità di costruire una vita
normale e restaurare l’ordine”;[149] avverte poi il governo: “se questo
atteggiamento continua, la fiducia degli operai sarà perduta e chi ci provoca
avrà definitivamente sollevato la classe operaia contro il governo.”[150]
Scoppiano immediatamente scioperi spontanei. La metà dei lavoratori di Csepel
entra in sciopero. Chi ha creduto alla conciliazione dichiara allora con
asprezza: “Le nostre trattative col governo non sono sfociate nel risultato
sperato. Pare che Janos Kadar non abbia il potere di sbarazzarsi di alcune
persone del suo entourage.”[151] In seguito ad un’ultima e vana ricerca di
Kadar, il consiglio, sulla base del resoconto della delegazione capeggiata da
Sandor Racz, decreta 48 ore di sciopero generale. La delegazione deve
denunciare “la campagna condotta contro il popolo e contro gli operai dal
governo Kadar, appoggiato dall’Urss” e che “vuole ignorare tutta la popolazione
ungherese ed i suoi rappresentanti.”[152]
Il Consiglio di Budapest, allargato
nell’occasione a delegati di consigli di provincia, si rivolge alla nazione. Ai
lavoratori del mondo intero chiede “scioperi di solidarietà con la loro lotta
per una vita senza paura e per la libertà individuale.”[153]
Il governo Kadar contrattacca con l’imposizione
della legge marziale e la messa al bando dei consigli operai, a partire da
quello di Budapest. Il suo crimine: aver voluto “fare del Consiglio centrale
degli operai l’organismo del potere centrale esecutivo”,[154] “costruire un
nuovo potere da opporre agli organi esecutivi dello Stato.”[155] La burocrazia
dichiara guerra senza quartiere al potere dei consigli, al potere operaio. È
lanciata una nuova prova di forza. Questa volta nella più totale chiarezza
politica.
Sconfitta e vittoria
Lo sciopero generale dell’11 e 12 dicembre,
sulla parola d’ordine del Consiglio centrale, ha confermato oltre ogni
previsione l’indistruttibile volontà rivoluzionaria dei lavoratori ungheresi.
Totale, malgrado il terrore poliziesco, lo sciopero esprime in forma
spettacolare l’avvenuta rottura degli ultimi legami sapientemente intessuti
dalle astuzie di Kadar, tra la burocrazia e gli elementi conciliatori della
classe operaia. Lo sciopero non è tuttavia riuscito a spazzare via il terrore controrivoluzionario.
Con esso si chiude la prima fase della rivoluzione ungherese: uno dopo l’altro
spariscono, sotto i colpi della repressione, i consigli operai nati dalla
Rivoluzione d’ottobre. La rivoluzione ungherese indietreggia.
Il Consiglio centrale e lo
sciopero generale
Il governo Kadar aveva accusato il Consiglio
centrale di voler “fare del Consiglio centrale degli operai un organismo di
potere centrale esecutivo.”[156] In realtà, se tale era in effetti la volontà
degli operai ungheresi a volte espressa dal loro Consiglio centrale, la sua
posizione pubblica non ha quasi mai oltrepassato l’affermazione di essere il
rappresentante degli operai per negoziare col governo, senza parlare di
rovesciarlo e prenderne il posto. Analogamente, per un periodo in Russia i
soviet non avevano reclamato il potere, essendo i bolscevichi i soli, con
Lenin, ad avanzare la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet”. Il Consiglio
centrale non ha chiesto “tutto il potere ai consigli”.
Certo, bisogna capire che la gran maggioranza
dei lavoratori ha a lungo conservato illusioni, sperando in un cambiamento
della politica russa, contando sull’appoggio dell’ex “nagysta” Kadar al fine di
riportare per mezzo di manovre governative quella vittoria parziale che la loro
compattezza faceva apparire verosimile. Altri, senz’altro, hanno sperato di
evitare nuovi combattimenti sanguinosi, desiderato di riprendere fiato, senza
capire che Kadar, strumento della burocrazia russa, avrebbe utilizzato tale
pausa solo per colpire meglio i lavoratori. È di tali illusioni e di tali
sofferenze mandate giù che si è alimentato il pensiero dei “conciliatori”. La
prolungata stasi delle masse ha portato ad uno sciopero che era, nello spirito
dei suoi dirigenti, meno una nuova offensiva che una difesa disperata: una
dimostrazione della propria volontà in cui però, sin dall’inizio, essi
accettavano la sconfitta se il governo si rifiutava di cedere. In tali
condizioni era inevitabile la sconfitta immediata: il governo Kadar non poteva
cedere ma soltanto colpire ancora più duro. È ciò che ha fatto.
Il Consiglio centrale non era per nulla unanime
sulla opportunità dello sciopero. Secondo Radio-Budapest quattro dei suoi
membri sarebbero andati a confidare a Kadar che a loro avviso la decisione di
scioperare “non era corretta”.[157] Azione spontanea? Ne possiamo dubitare: tre
giorni dopo la decisione … Balazs, già eliminato dalla presidenza il 14
novembre, avrebbe dato le sue dimissioni nel corso della riunione allargata ai
delegati della provincia.[158] Ma se ci sono state le dimissioni di Balazs,
cosa comunque non provata, ciò non implica un’adesione al governo Kadar di cui
né la stampa né la radio danno traccia. Al contrario il ferroviere Endre Mester
denuncia i “controrivoluzionari” del Consiglio centrale[159] tre giorni dopo
essere stato lui stesso denunciato da Kadar come il loro ispiratore-[160]
Dichiarazione sospetta, nel caso sia autentica: queste “confessioni” tardive e
questa “conversione” improvvisa non si possono spiegare che con l’intervento di
una polizia capace di strappare confessioni e conversioni.
Il Consiglio centrale ha preso le sue misure
per far fronte alla repressione: una radio clandestina parlerà a suo nome ed
uno dei suoi componenti, Istvan Torok, è inviato all’estero per portare
documenti ad Anna Kethly. Il giorno 8 dicembre Sandor Racz aveva concordato con
un corrispondente italiano un’intervista da pubblicare nel caso fosse stato
arrestato: “Ho la coscienza tranquilla perché sono stato l’infelice interprete
della volontà dei lavoratori e di quelli che hanno lottato con l’ideale di una
Ungheria libera, indipendente e neutrale e per uno Stato socialista … Tutto ciò
ci è stato negato. Il governo sa di non avere il paese con lui e, consapevole
che oggi l’unica forza organizzata che ha fatto veramente la rivoluzione è la
classe operaia, vuole smantellare il fronte dei lavoratori. Posso però
affermarlo: non si riuscirà mai a spezzare la volontà degli ungheresi che sono
pronti a dare la vita.”[161] L’appello lanciato dalla radio clandestina è
ancora più profondamente impregnato di pessimismo sull’esito immediato dei
combattimenti: “Il governo ha mostrato che non accorda e non accorderà mai
alcuna attenzione al nostro lavoro. Operai e contadini devono restare uniti.
L’altro campo desidera la lotta aperta. Continueremo il combattimento malgrado
la nostra posizione di debolezza … Noi, operai, non siamo controrivoluzionari.
Abbiamo lottato per conquistare la libertà. Abbiamo creato dei consigli operai
legali, responsabili di trattare col governo centrale. Siamo però stati
considerati dei fuorilegge. Tutti devono sapere da quale parte si trova la
ragione e saprà allora come siamo stati ingannati.”[162]
Lo sciopero generale
La consegna del Consiglio centrale era di
iniziare lo sciopero alla mezzanotte dell’11 dicembre. Nella giornata del 10 si
tengono assemblee in tutte le fabbriche di Budapest e della provincia: ancora
una volta gli operai discutono democraticamente l’azione che
intraprenderanno.[163] Il governo moltiplica gli arresti, le retate e le
perquisizioni. Dalle ore 18 del 10, ancor prima dell’inizio dello sciopero,
viene decretata la legge marziale.
Nonostante ciò, l’11 ed il 12 lo sciopero è
generale in tutto il paese. Radio-Budapest proclama che il consiglio di Csepel
si è pronunciato contro lo sciopero ma nel complesso industriale lo sciopero è
generale, come conferma il comunista Sam Russel.[164] L’Humanité cita a
ripetizione il presidente del consiglio operaio di Mavag, contrario allo
sciopero, ma lo sciopero è totale anche a Mavag… [165] Nel primo pomeriggio
sono arrestati Sandor Racz, presidente del Consiglio centrale, ed il suo
compagno Sandor Bali, come lui membro del consiglio e operaio nella fabbrica di
apparecchi elettrici Belojannis. La prefettura della polizia di Kadar annuncia:
“Queste due persone hanno giocato un ruolo di primo piano nella trasformazione
del Consiglio centrale di Budapest in uno strumento della controrivoluzione …
Hanno comandato un’organizzazione illegale, promosso scioperi provocatori; con le
minacce hanno cercato di intimidire gli operai ed i tecnici onesti.
Recentemente, hanno organizzato una conferenza nazionale con la partecipazione
di elementi controrivoluzionari privi di alcun rapporto coi consigli operai. In
questa occasione hanno lanciato un appello per rovesciare il governo e, con
questa finalità, hanno imposto un provocatorio sciopero generale di 48 ore…” Lo
stesso comunicato accusa Racz e Bali di aver “mantenuto relazioni strette con
Radio Free Europe e con corrispondenti della stampa occidentale.”[166] Lo
stesso giorno viene sciolto il Comitato rivoluzionario degli intellettuali. La
polizia perquisisce la sua sede e ne chiude i locali.[167] Queste misure
poliziesche non impressionano però i lavoratori e lo sciopero sarà così generale
entrambi i giorni. Addirittura, il 13 ed il 14 lo sciopero continuerà sia alla
Belojannis che a Csepel per protestare, in particolare, contro l’arresto di
Racz e Bali.[168]
La classe operaia resiste
ancora
È difficile descrivere con precisione la situazione
nelle fabbriche ungheresi all’indomani della repressione scatenata contro i
dirigenti dei consigli operai. La maggior parte delle fabbriche sono ferme o
lavorano al minimo. Il governo Kadar attribuisce la responsabilità alla
mancanza di carbone. Nella prima metà di dicembre, alternando minacce e
promesse come abitudine, il governo ha portato avanti una campagna accanita per
far riprendere il lavoro nelle miniere. I minatori hanno risposto il 16
attraverso la radio clandestina del consiglio operaio. I minatori ungheresi
rifiutano di trattare con Kadar. Accetterebbero di trattare con un eventuale
successore se polizia ed esercito russo si ritirassero del tutto e se tutti gli
ungheresi arrestati dopo il 4 novembre fossero liberati … In più chiedono l’aumento
generalizzato dei salari e la proibizione del lavoro forzato. Con senso dello
humour, i minatori anticipano che se la polizia e l’esercito russo si
ritirassero, loro riprenderebbero il lavoro assicurando il 25% della produzione
normale. Se i prigionieri politici fossero liberati arriverebbero al 33%.
Comunque, non riprenderebbero il lavoro al 100% prima di aver visto soddisfatte
tutte le proprie rivendicazioni. L’appello finisce con l’affermazione di una
indomita volontà rivoluzionaria: “Se il governo non accetta queste condizioni,
nessuno lavorerà nelle miniere, anche se noi minatori dovessimo ridurci a fare
l’elemosina oppure ad emigrare all’estero.”
Il 10 gennaio hanno luogo manifestazioni
operaie a Csepel, durante le quali un metalmeccanico è ucciso dalla polizia di
Kadar. Quello stesso giorno si dimettono i consigli di Csepel e di Belojannis,
il giornale di Kadar Nepszabadsag fa un appello alla lotta “contro gli elementi
ostili che si mascherano da marxisti e lanciano parole d’ordine su democratizzazione
e destalinizzazione.”
Il governo moltiplica le concessioni ai
contadini ricchi: è il “piccolo proprietario” Istvan Dobi che dirige il
“presidium” della Repubblica ungherese. Kadar tratta con Bela Kovacs, Istvan
Bibo e Zoltan Tildy, dirigenti del partito dei piccoli proprietari, e con
Ferenc Erdei, nazional-contadino. In seguito verranno altre concessioni la cui
linea è già tracciata: concessioni agli elementi pro-capitalisti ed alla
borghesia internazionale in cambio di “prestiti”. Non ci saranno però concessioni
alla classe operaia ungherese finché essa si organizzerà nei consigli: tra i
soviet e la burocrazia l’antagonismo è inconciliabile.
La direzione rivoluzionaria
Nella lotta che continua si preparano le
condizioni per la vittoria di domani. I lavoratori ungheresi si sono lanciati
nella rivoluzione senza direzione rivoluzionaria. Gli intellettuali e i quadri
del Pc che hanno animato le prime manifestazioni volevano una riforma del
partito, un cambiamento nella sua direzione. La dimostrazione che la presenza
di Nagy alla testa del governo non cambiava nulla finché esisteva lo Stato dei
gendarmi e dei burocrati è stata fatta nei primi giorni della rivoluzione. La
trappola di Gero si è ritorta contro di lui ed i suoi padroni perché,
spontaneamente, i lavoratori hanno cominciato a costruire il loro Stato, quello
dei consigli operai. Per alcuni giorni la loro forza è stata irresistibile: si
trattava, come dice il comunista polacco Bielicki, della sostituzione del caos
con “l’ordine rivoluzionario”. Ma non era sufficiente. La volontà, espressasi
ovunque, di costruire un governo dei consigli – a Miskolc, Gyor, Sopron, nel
consiglio di Borsod o nel Comitato transdanubiano – avrebbe dovuto
concretizzarsi immediatamente nella costituzione di un Parlamento operaio, di
un Consiglio operaio nazionale. Per realizzare ciò era necessaria una direzione
rivoluzionaria, con prospettive giuste, provvista di un’analisi sulla potenza
dell’avversario e sull’obiettivo da raggiungere, il potere operaio, e che
avrebbe dovuto essere in grado di organizzare il potere nazionale dei consigli
e dei comitati. È grottesco, come qualcuno ha fatto, e pensiamo di averlo
mostrato, affermare con presunzione che Nagy e i suoi erano socialdemocratici e
favorevoli alla restaurazione del capitalismo. È fuor di dubbio che si sono
uniti alla rivoluzione ed hanno, senza ambiguità, rotto con la burocrazia ed il
suo apparato. Sarebbe però erroneo pensare che abbiano svolto il ruolo di
direzione: scavalcati dagli eventi, in ritardo di molti giorni sulle masse –
nel fuoco di una rivoluzione in cui le ore sono giorni e i giorni anni – sono
stati al traino degli avvenimenti, schiacciati dal peso di anni passati a
pensare ed agire come uomini d’apparato.
È significativo che il nuovo partito comunista
che hanno voluto fondare non abbia raccolto l’avanguardia dei combattenti
rivoluzionari dell’Ottobre. I Miklos Gimes, Fekete Sandor e gli altri
oppositori comunisti che puntano a fondare nella clandestinità la “Lega dei
socialisti ungheresi” pubblicheranno 9 numeri clandestini di “23 Ottobre” prima
di essere colpiti dalla repressione. Anche in questo caso la burocrazia è
riuscita a colpire con rapidità: ha utilizzato la sua organizzazione, la sua
esperienza e la sua tecnica per reprimere ed al tempo stesso disorientare le
masse operaie prive di una direzione. I lavoratori di Dunapentele rivolgevano
un appello ai lavoratori russi per fraternizzare, quelli di Miskolc gridavano
ai lavoratori cecoslovacchi e rumeni che si stavano battendo anche per loro.
Invece Imre Nagy faceva appello all’aiuto dell’ONU … Ed infine, la manovra per
eccellenza della burocrazia, la sua ultima carta, cioè “l’oppositore” Kadar, il
quale ha potuto provvisoriamente giocare un ruolo che né i carri né i cannoni
avrebbero potuto svolgere. Anche in questo frangente nessuna direzione
rivoluzionaria ha potuto impedire che i lavoratori ungheresi cadessero in
questo tranello. Erano i più forti e si sono battuti alla grande. Eppure sono
stati sconfitti.
Un’“opposizione” inconseguente
Una delle ragioni della sconfitta è da cercare
nel carattere dell’opposizione interna al partito ungherese. Come abbiamo visto
Imre Nagy si collegava, all’interno del movimento comunista, alla tradizione
della tendenza “di destra” incarnata negli anni Trenta da Bukharin. Un compagno
ungherese scrive al riguardo:
“Le tradizioni ‘bukhariniane’ si sono
organizzate attorno a tre principi:
NEP: mantenimento della piccola proprietà per
un periodo prolungato di transizione verso il socialismo;
Democrazia popolare: periodo di transizione in
cui si conservano le forme politiche della democrazia borghese
(parlamentarismo, sistema multipartitico);
Fronte popolare: sul piano della politica
interna ed internazionale, alleanza coi settori piccolo borghesi ed i loro
rappresentanti politici.”
Aggiunge inoltre che il limite dell’ala nagysta
“bukhariniana” era che essa “non possedeva l’esperienza trotskista della
critica allo stalinismo in quanto sistema burocratico”:
“Secondo l’ala nagysta, lo stalinismo era una
forma settaria di estremismo, cioè una marcia in avanti troppo veloce su una
strada però necessaria, lungo la quale però si erano abbandonate le forme
necessarie della transizione. Essa era così incapace di criticare lo stalinismo
in quanto sistema conseguente alla degenerazione del socialismo e la sua
posizione non era ‘più socialista’ ma solamente ‘più moderata’.”
Al momento dello scontro frontale di novembre,
Nagy ha senz’altro avuto il merito di abbandonare la via del temporeggiamento e
del compromesso con la burocrazia stalinista, l’adattamento che aveva seguito
sino ad allora: tenendo testa ai suoi boia ed ai suoi giudici Nagy ha scelto il
suo campo di classe, quello dei lavoratori ungheresi caduti sotto i carri e
l’Avh, riportata per volontà del Kgb e dei capi del Cremlino. Non è meno vero
che fino a quel momento si era astenuto dal prendere qualsiasi iniziativa per
organizzare gli oppositori in maniera indipendente dall’apparato, in altre
parole di rompere in modo decisivo con la burocrazia controrivoluzionaria. Sin
dal 1955 alcuni coraggiosi militanti, ad esempio Miklos Gimes, ex giornalista
di Szabad Nep, o quel giovane storico che in mezzo ad una riunione di partito
chiedeva l’espulsione di Rakosi, aprivano una via che non fu seguita. Gli elementi
più coscienti dell’opposizione comunista – e Miklos Gimes era uno di loro –
avevano iniziato ad analizzare la società russa - talvolta appoggiandosi alla
lettura dell’unico esemplare, in francese, della Rivoluzione tradita portato da
Parigi da Gimes – ed avevano scoperto l’esistenza della casta burocratica,
rotto nella loro testa con la “legalità” del partito e ipotizzato la
costruzione di un’organizzazione clandestina contro l’apparato. Tuttavia non si
dedicarono al raggiungimento di questo obiettivo, schiacciati innanzitutto
dall’ampiezza del compito storico ed anche dal ritmo rapidissimo ed allucinante
dello sviluppo rivoluzionario. Alcuni mesi dopo il soffocamento delle ultime
resistenze conclusioni analoghe erano formulate da un altro comunista oppositore,
Sandor Fekete, in un pamphlet a firma Hungaricus arrivato in Occidente.
Eppure nel 1956 il programma espresso da
milioni di lavoratori manuali ed intellettuali di Ungheria nelle risoluzioni
dei loro consigli e comitati riprendeva quasi alla lettera, paragrafo per
paragrafo, il programma della rivoluzione politica tracciato vent’anni prima
nella Rivoluzione tradita – e precisato nel Programma di transizione –
all’ordine del giorno in Urss ed in seguito anche nei paesi sottomessi alla
burocrazia stalinista. Mancava a questo programma la sua punta più avanzata, la
necessità della costruzione di un partito rivoluzionario collegato alla IV
Internazionale. La responsabilità principale non sta sulle spalle dei
rivoluzionari dell’opposizione comunista ungherese, ma su quelle degli uomini
che all’epoca erano alla testa della IV Internazionale e tentavano con Pablo e
Mandel di difendere e riabilitare la prospettiva di una “rigenerazione
dell’apparato”, della “mutazione” dei partiti stalinisti… e celebravano la
“rivoluzione politica” diretta da Gomulka!
Un apparato
controrivoluzionario conseguente
La burocrazia, invece, non ha commesso errori.
Anche se è stata costretta a gridare ai quattro venti che era dovuta
intervenire per reprimere l’assalto della “controrivoluzione horthysta”, anche
se ha denunciato a gran voce gli uomini dei “partiti borghesi” rientrati a suo
dire sotto l’ala protettrice di Nagy, essa non ha impiccato nessun horthysta e
nessun dirigente dei vecchi partiti schieratisi col governo Nagy. Essa ha
invece incarcerato tanti comunisti quanti horthysti. Ma soprattutto, la
burocrazia stalinista ha ucciso innanzitutto i comunisti, non soltanto a caldo,
nel corso della repressione e della riconquista delle città, ma anche più tardi
a freddo e segretamente. La burocrazia ha impiccato lo stesso Imre Nagy, Pal
Maleter, Miklos Gimes e Jozsef Szilagyi, condannato a pene pesantissime Sandor
Racz, Bali, Karsai ed altri dirigenti del Consiglio operaio centrale, Gabor
Tanczos, segretario del Circolo Petofi, Janos Varga, membro del Comitato
rivoluzionario degli studenti, militanti della Gioventù comunista come Balint
Papp, difensore di Dunapentele, o Laszlo Bede di Debrecen … Migliaia di
militanti, combattenti della rivoluzione politica del 1956, sono stati condannati
ad anni di prigione, hanno perso il lavoro, sono stati costretti ad una
sorveglianza estenuante, isolati dai loro compagni, tenuti lontani dalle
giovani generazioni. Colpendo questi uomini, strappando dalla memoria
collettiva dei lavoratori ungheresi persino il ricordo della rivoluzione del
1956, la burocrazia ha mostrato alla luce del giorno la sua natura e la sua
coscienza controrivoluzionaria, il suo carattere di casta irriducibilmente
ostile alla classe operaia.
Il futuro
In questa sconfitta si trovano, nonostante
tutto, i germi delle prossime vittorie. La direzione politica rivoluzionaria
che è mancata ai lavoratori ungheresi per coordinare la loro azione e renderla
inarrestabile, per superare i tranelli della burocrazia controrivoluzionaria del
Cremlino, si forgia oggi nella resistenza dei lavoratori, nelle fabbriche come
nei campi di concentramento e nelle prigioni ed anche nella clandestinità. La
futura direzione sarà rinforzata dagli insegnamenti della lotta in questi mesi
decisivi. La vittoria della rivoluzione russa del 1917 è il frutto della
sconfitta del 1905 e della costruzione del partito bolscevico di Lenin.
Combattenti comunisti di diverse generazioni preparano oggi il loro Ottobre
vittorioso in Ungheria come in Polonia, a Praga come a Mosca.
Dicembre 1956
Pubblicato originariamente sotto lo pseudonimo
François Manuel. Il testo in italiano è tradotto da una successiva versione del
lavoro di Pierre Broué, edita nel 1976 nella serie Documents de l’Oci. Rispetto
alla versione originale manca un capitolo sulla relazione tra i fatti
d’Ungheria e la situazione politica francese ed internazionale dell’epoca.
Note
[1] Intervista citata da Bondy, Demain, 8
novembre 1956.
[2] New York Times, 2
luglio 1956.
[3] New York Times, 1
luglio 1956.
[4] Irodalmi Ujzag, 18 agosto 1956.
[5] Ghepeu o Gpu: polizia politica russa,
diventata poi Nkvd e poi Kgb.
[6] Irodalmi Ujzag, 30
giugno 1956.
[7] New York Times, 22
ottobre 1956.
[8] Ibidem, 23 ottobre
1956.
[9] New York Times, 22
ottobre 1956.
[10] Szabad Nep, 23 ottobre
1956.
[11] Sefton Delmer, in
Daily Express, 24 ottobre 1956.
[12] Sherman, The Observer, 11 novembre 1956.
[13] Notizia della United Press, 24 ottobre
1956.
[14] Avh (o Avo): polizia politica ungherese.
Gli “Avos” sono i suoi membri.
[15] The Observer, 11
novembre 1956.
[16] Anthony Rhodes, Daily
Telegraph, 24 novembre 1956.
[17] Archivi privati.
[18] Daily Telegraph, 29 ottobre 1956.
[19] United Press, 24 ottobre 1956.
[20] Citato dal Demain, 1 novembre 1956.
[21] The Observer, 1
novembre.
[22] Ibidem.
[23] Ibidem.
[24] New York Times, 27 ottobre.
[25] Radio-Kossuth e Petofi, 25 ottobre, ore
15.18: “I compagni Janos Kadar e Imre Nagy al microfono”.
[26] Ibidem.
[27] United Press, 25
ottobre 1956.
[28] The Observer, 25
novembre 1956.
[29] Coutts, su The Daily
Worker, 26 novembre 1956.
[30] New York Times, 28
ottobre 1956.
[31] The Times, 27 ottobre
1956.
[32] New York Herald
Tribune, 27 ottobre 1956.
[33] United Press, 26
ottobre 1956.
[34] Ibidem.
[35] The Times, 27 ottobre
1956.
[36] Le Monde, 29 ottobre 1956.
[37] Ibidem, 30 ottobre 1956.
[38] Le Franc-Tireur, 29 ottobre 1956.
[39] Il Partito nazionale contadino si formò
nel 1939 sotto la direzione di scrittori “populisti”; raggruppava braccianti,
contadini poveri, intellettuali, maestri di paese. Si dichiarò fin dalla
costituzione a favore di una riforma agraria. Partecipò al governo provvisorio
del dicembre ’44, a fianco del Pc, del Psp e del partito dei piccoli
proprietari; prese l’iniziativa nella direzione di una radicale riforma
agraria. Era parte del governo di coalizione del 1945-1948 e venne
sciolto dopo la “svolta” del 1948. Rinacque il 31 ottobre 1956.
[40] New York Times, 29 ottobre 1956.
[41] Ibidem.
[42] Le Monde, 30 ottobre 1956.
[43] Le Franc-Tireur, 30 ottobre 1956.
[44] Demain, 1 novembre 1956.
[45] New York Times, 2
novembre 1956.
[46] Demain, 1 novembre
1956.
[47] New York Times, 31
ottobre 1956.
[48] Le Franc-Tireur, 30
ottobre 1956.
[49] Daily Mail, 26 ottobre
1956.
[50] Notizia Reuter, 27 ottobre 1956.
[51] Daily Telegraph, racconto di Rhodes, 24
novembre 1956.
[52] Gordey, su France-Soir, 12 novembre 1956.
[53] Journal du Dimanche, 27 ottobre 1956.
[54] The Times, 29 ottobre 1956.
[55] Ibidem.
[56] Le Monde, 30 ottobre 1956.
[57] Ibidem.
[58] Comunicato a Radio-Kossuth, 30 ottobre
1956.
[59] Radio-Kossuth, 31 ottobre, ore 20.01.
[60] Le Monde, 1 novembre 1956.
[61] New York Times, 31
ottobre 1956.
[62] France-Observateur, 1
novembre 1956.
[63] New York Times, 30
ottobre 1956.
[64] Ibidem.
[65] Le Monde, 28 ottobre 1956.
[66] United Press, 27 ottobre 1956.
[67] Le Monde, 14 novembre 1956.
[68] Citato da Pologne-Hongrie 1956, EDI, pp.
196-197.
[69] The Daily Worker, 1
dicembre 1956.
[70] New York Times, 4
novembre 1956.
[71] F. Fejto, France-Observateur, 8 novembre
1956.
[72] L’Humanité, 17 novembre 1956.
[73] Tribune, 23 novembre 1956.
[74] Le Peuple, 14 novembre 1956. Anna Kethly
su Le Franc-Tireur, 30 novembre 1956.
[75] Anna Kethly su Le Franc-Tireur, 30
novembre 1956.
[76] Tribune, 30 novembre 1956.
[77] L’Humanité, 16 novembre 1956.
[78] Anna Kethly su Le Franc-Tireur, 30
novembre 1956.
[79] Le Monde, 5 dicembre 1956.
[80] Ibidem.
[81] L’Humanité, 16 novembre 1956.
[82] The Daily Worker, 16
novembre 1956.
[83] Demain, 29 novembre
1956.
[84] L’Humanité, 5 novembre 1956.
[85] Nepszava (Voce del popolo), organo
centrale del partito socialdemocratico ungherese dalla fine del XIX
secolo, diventò l’organo centrale dei sindacati dopo la ‘fusione’ tra
questo partito ed il Pc nel giugno 1948. Ridiventato organo del partito
socialdemocratico riorganizzatosi durante la rivoluzione, oggi è nuovamente
l’organo dei sindacati.
[86] Tribune, 23 novembre 1956.
[87] Ibidem.
[88] Ibidem.
[89] Ibidem.
[90] Ibidem.
[91] Ibidem.
[92] Le Parisien libéré, 5 novembre 1956.
[93] Michel Gordey, France-Soir, 12 novembre
1956.
[94] Ibidem, 16 novembre.
[95] New York Times, 8
novembre 1956.
[96] Daily Telegraph, 10
novembre 1956.
[97] New York Times, 25
novembre 1956.
[98] Tibor Meray, nel suo racconto “Imre Nagy
durante la rivoluzione” (in Imre Nagy, un communisme qui n’oublie pas l’homme,
Plon, Parigi, p. 249), riferisce in questi termini la conversazione tenuta tra
i ministri ungheresi venuti a protestare contro l’avanzata delle colonne
motorizzate che occupavano ormai punti strategici: “Intervenendo uno dopo
l’altro, i membri del governo appoggiano ‘il vecchio’. Il più virulento è il
suo successore, Janos Kadar. Poco importa quello che sarà di lui, dice prima di
iniziare a gridare, perché se si renderà necessario egli è disposto, come
ungherese, a combattere. ‘Se i vostri carri’, grida Kadar all’ambasciatore
sovietico, ‘entrano a Budapest scenderò in strada per battermi contro di voi,
anche a mani nude’.”
[99] Le Franc-Tireur, 29 novembre 1956.
[100] The Daily Worker, 5 novembre 1956.
[101] Le Franc-Tireur, 5 novembre 1956.
[102] Ibidem, 12 novembre
1956.
[103] The Daily Worker, 12
novembre 1956.
[104] France-Soir, 15 novembre 1956.
[105] L’Humanité, 10 dicembre 1956.
[106] Franc-Tireur, 16 novembre 1956.
[107] Ibidem.
[108] Ibidem.
[109] Riferimento allo stabilimento Renault di
Billancourt, storico bastione della classe operaia francese. Per importanza
nella storia del movimento operaio si potrebbe paragonare allo stabilimento
Fiat di Mirafiori [NdT].
[110] Daily Telegraph, 11 novembre 1956.
[111] Tribune de Genéve, 16 novembre 1956.
[112] Ibidem
[113] Mc Cormac, New York
Times, 17 novembre 1956.
[114] Ibidem, 19 novembre 1956.
[115] Le Franc-Tireur, 20 novembre 1956.
[116] L’Humanité, 21 novembre 1956.
[117] Tribune de Genéve, 22 novembre 1956.
[118] Le Franc-Tireur, 22 novembre 1956.
[119] Ibidem, 23 novembre 1956.
[120] Le Figaro, 23 novembre 1956.
[121] Le Franc-Tireur, 24 novembre 1956.
[122] Ibidem.
[123] L’Humanité, 23
novembre 1956.
[124] New York Times, 25
novembre 1956.
[125] L’Humanité, 27 novembre 1956.
[126] L’Humanité, 27 novembre 1956.
[127] Le Franc-Tireur, 28 novembre 1956.
[128] Le Monde, 29 novembre 1956.
[129] France-Soir, 1 dicembre 1956.
[130] New York Times, 1
dicembre 1956.
[131] Combat, 1 dicembre
1956.
[132] The Daily Worker, 28
novembre 1956.
[133] Ibidem, 27 novembre
1956.
[134] Pologne-Hongrie, op. cit., p. 286.
[135] Ibidem, p. 260.
[136] Le Monde, 28 novembre 1956.
[137] L’Humanité, 28
novembre 1956.
[138] The Daily Worker, 24
novembre 1956.
[139] Pologne-Hongrie, op. cit., pp. 261-262.
[140] Ibidem, p. 262.
[141] Ibidem.
[142] Le Figaro, 1 dicembre 1956.
[143] Combat, 1 dicembre 1956.
[144] Le Figaro, 1 dicembre 1956.
[145] Afp, 4 dicembre 1956.
[146] New York Times, 5
dicembre 1956.
[147] Ibidem.
[148] Tribune de Genéve, 8 dicembre 1956.
[149] Daily Telegraph, 8 dicembre 1956.
[150] Le Figaro, 8 dicembre 1956.
[151] Le Monde, 8 dicembre 1956.
[152] Daily Telegraph, 10 dicembre 1956.
[153] Daily Mail, 10 dicembre 1956.
[154] L’Humanité, 10 dicembre 1956.
[155] Le Monde, 11 dicembre 1956.
[156] L’Humanité, 10 dicembre 1956.
[157] Tribune de Genéve, 12 dicembre 1956.
[158] The Daily Worker, 12 dicembre 1956.
[159] Ibidem.
[160] L’Humanité, 10 dicembre 1956.
[161] Il Giorno, 14 dicembre 1956.
[162] Tribune de Genéve, 13
dicembre 1956.
[163] New York Times, 11
dicembre 1956.
[164] The Daily Worker, 12
dicembre 1956.
[165] Ibidem.
[166] Tribune de Genéve, 13 dicembre 1956.
[167] France-Soir, 15
dicembre 1956.
[168] Daily Telegraph, 14 dicembre 1956.