sabato 12 maggio 2012


L'INTERVENTO COMUNISTA NEL SINDACATO
di Antonino Marceca
anno 2006
Premessa

Il sindacato è una delle forme di organizzazione che i lavoratori si sono dati per difendere i propri interessi immediati, le proprie condizioni di vita e di lavoro dalla sete di profitto del capitale. Per svolgere questo ruolo di fronte al padronato il sindacato deve raggruppare e rappresentare la maggioranza dei lavoratori, anche i più arretrati.
Nel corso del suo sviluppo storico all’interno del sindacato si è differenziato uno strato burocratico riformista che pur elevandosi al di sopra della massa rappresentata, mantiene con essa un rapporto dialettico. La burocrazia sindacale riformista è sensibile al clima sociale: si adatta ai momenti di ascesa e di riflusso delle lotte, proprio per non perdere il contatto con la propria base sociale. In generale essa preferisce e opera per il ripristino di una condizione di collaborazione di classe.
La burocrazia riformista trae la sua origine e forza sia dal ruolo svolto di mediatore delle condizioni di vendita della forza-lavoro nel mercato capitalistico, sia dai legami sempre più profondi che instaura con la borghesia e i suoi governi, tramite i partiti riformisti e centristi del movimento operaio. Essa raccoglie, proprio per il suo ruolo, le briciole che cadono dal tavolo imbandito della borghesia. Contro questo strato piccolo-borghese e parassitario che tende a riprodursi in tutti i sindacati, i comunisti attivi nel sindacato devono organizzarsi, lottare per la democrazia operaia, presentare proprie piattaforme politico-sindacali su cui acquisire il consenso dei lavoratori, avendo come prospettiva la costruzione del sindacato di classe. L’intervento dei comunisti è pertanto finalizzato a strappare la massa dei lavoratori all’influenza del centrismo e del riformismo: è la lotta per l’egemonia rivoluzionaria.
Nel corso delle lotte e al culmine di esse, i lavoratori si danno altri strumenti organizzativi, come i Consigli di fabbrica e d’azienda (organismi diversi dalle Rsu aziendali sia per le diverse modalità di elezione dei delegati che per i connessi rapporti con le organizzazioni sindacali)e, in fasi più avanzate, i Soviet. Queste strutture di democrazia proletaria organizzano masse di lavoratori più ampie dei sindacati stessi: compito del partito comunista rivoluzionario è la loro conquista egemonica alla prospettiva rivoluzionaria, alla lotta per il socialismo. Pertanto, pur riconoscendo come centrale il lavoro dei comunisti nei sindacati, non bisogna fare di questi un feticcio nella lunga e difficile battaglia per la rivoluzione socialista.
Le premesse politiche e organizzative di questa battaglia, proprio perché il socialismo si edifica coscientemente, sono date dalla costruzione del partito comunista rivoluzionario che, come ci insegna Zinov’ev nello scritto La formazione del Partito bolscevico, “non si crea in un giorno, ma si forma nel corso di anni”, aggiungendo che “se dovessimo definire l’essenza del bolscevismo, il suo ruolo nella storia del movimento rivoluzionario russo, la sua idea caratteristica diremmo: il bolscevismo è l’egemonia del proletariato nella rivoluzione”.
Proprio perché vogliamo riannodare nel nostro paese il filo rosso del marxismo rivoluzionario, spezzato dallo stalinismo, riaffermiamo l’attualità della centralità e quindi dell’egemonia della classe operaia nel processo rivoluzionario. La riaffermazione della centralità politica della classe operaia non è ideologica, ma deriva dalla sua collocazione materiale nei meccanismi di estorsione del plusvalore nell'ambito del modo di produzione capitalistico. Il capitale vive solo nella misura in cui riesce a estorcere plusvalore, che non deriva dalle macchine. Il capitalismo è condannato dalla concorrenza tra capitali a portare al massimo grado l’utilizzo di macchinari e l'automazione, ma non può portare fino in fondo questo processo proprio a causa di un "piccolo dettaglio": il lavoro umano è l’unica fonte dell’accumulazione del capitale.
Il riformismo, nelle sue varianti in Italia e nel mondo, ha mobilitato i suoi intellettuali come Revelli per dire che è superato “il paradigma novecentesco” per il presunto declino della classe operaia e che bisogna pertanto individuare nuovi soggetti di liberazione, quali la cittadinanza, la moltitudine, la società civile e cosi via astraendo. Le loro deduzioni, apparentemente scientifiche, derivano da una valutazione puramente sociologica dei dati relativi al decremento nell’ultimo ventennio, in percentuale e in valori assoluti, degli occupati nell'industria a vantaggio degli occupati nei servizi, dove peraltro la condizione dei salariati è assimilabile alla condizione proletaria per rapporto economico (salario), per contenuto dei lavoro (manuale), per orario (non libero). Ma la diversa ripartizione percentuale nei due settori economici deve essere analizzata nel quadro della crisi capitalistica mondiale di sovrapproduzione iniziata a partire dalla prima metà degli anni ’70 e della risposta data dal capitale.
Il capitale imperialista, a partire dagli anni ’70, per mantenere i tassi di profitto ha operato in due sensi: da un lato ha concentrato nel proprio paese le industrie ad alto contenuto tecnologico e la gestione finanziaria e commerciale delle imprese; dall’altro ha decentrato la produzione a basso contenuto tecnologico nei paesi periferici alla ricerca di manodopera a basso costo (c’è infatti un rapporto inversamente proporzionale tra contenuto tecnologico delle aziende e numero di lavoratori occupati). Oggi, pertanto, rispetto agli anni ’50 del secolo scorso il proletariato industriale su scala mondiale è aumentato sia in cifra assoluta che in rapporto alla popolazione attiva. La sua dislocazione, poi, non è più limitata ai soli paesi centrali del sistema capitalistico mondiale, ma si è diffusa ovunque. Il proletariato complessivo ha superato i due miliardi di unità sul piano mondiale. La realtà è che il capitale non può fare a meno della produzione e, quindi, della classe operaia, neanche nei paesi imperialisti. Il vero problema che ha il capitale è come aumentare la produttività diminuendo i salari, infatti l'attacco padronale avviene in nome della centralità dell'impresa! Certo la classe operaia italiana è oggi più frammentata, precaria e flessibile, effetto combinato e composto della crisi economica che viene scaricata sui lavoratori e della prevalenza nella struttura produttiva del paese della piccola e media impresa. Una classe operaia più frammentata ha maggiori difficoltà nel difendersi, deve quindi ricreare condizioni di unità al proprio interno. Possiamo quindi affermare che, pur variando le percentuali dei diversi settori dell’economia, anche nei paesi capitalistici più avanzati la produzione conferma la centralità politica della classe operaia nei processi di trasformazione rivoluzionaria. E’ compito della classe operaia costruire attorno a sé un ampio fronte di classe che unifichi tutto il proletariato e le masse popolari, da qui l’importanza di una piattaforma unificante di rivendicazioni immediate e transitorie.
Non è possibile neppure ipotizzare la rottura rivoluzionaria del sistema capitalistico, la conquista del potere politico della classe operaia senza aver prima conquistato la maggioranza della classe operaia, strappato il controllo di intere categorie alla burocrazia sindacale riformista, conteso e vinto i partiti riformisti e centristi nello scontro per l’egemonia nel proletariato. La strategia e la tattica dell’intervento dei comunisti nel sindacato è parte essenziale di questa battaglia.
Di seguito abbiamo riportato stralci di dichiarazioni e analisi fatte dai maggiori teorici del marxismo rivoluzionario, per inquadrare teoricamente la questione, perché nemmeno in questo campo partiamo da zero: possiamo rifarci a questo patrimonio per dare ai militanti comunisti gli strumenti essenziali della tattica di intervento marxista rivoluzionario nel sindacato. È una tattica che nelle elaborazioni programmatiche di Marx e Engels, Lenin e Trotsky, passando per le Internazionali e le prime esperienze del Pcd’I, presenta un filo rosso basato sul metodo transitorio: le rivendicazioni immediate devono essere sempre collegate nel corso della lotta, attraverso rivendicazioni transitorie, alla prospettiva socialista. Grazie a questo metodo, come la storia del movimento operaio dimostra, possiamo in ambito sindacale e politico sconfiggere la burocrazia sindacale riformista e con essa la borghesia e il suo sistema.



IL CONTRIBUTO DEL MARXISMO RIVOLUZIONARIO

Marx ed Engels: il nesso tra lotte sindacali e lotte politiche

La natura e la funzione del sindacato è stata al centro della riflessione del movimento operaio fin dalle sue origini. Marx ed Engels riflettono per lunghi anni sul rapporto fra lotte propriamente sindacali e lotte politiche, riflessioni che si traducono nella loro azione politica all’interno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Prima Internazionale).
In uno scritto per i delegati del Consiglio generale provvisorio al Congresso di Ginevra (3-8 settembre 1866) dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Prima Internazionale) Karl Marx così descrive l’origine delle organizzazioni sindacali, facendo riferimento alla Gran Bretagna: “Le associazioni professionali sono originariamente nate dai tentativi spontanei dei lavoratori, in lotta contro il potere dispotico del capitale per eliminare o almeno limitare la concorrenza tra loro, tali tentativi avevano lo scopo di permettere ai lavoratori di ottenere condizioni di vita tali da elevarli almeno al di sopra della condizione di semplici schiavi. Il fine immediato delle associazioni professionali si limitava quindi alle necessarie lotte quotidiane tra lavoro e capitale, a servire da mezzo di difesa contro i soprusi incessanti del capitale, in una parola, alla questione del salario e dell’orario di lavoro” ma, continua Marx “le associazioni professionali hanno privilegiato in modo troppo esclusivo il loro compito di lotta immediata contro il capitale (…) si sono perciò tenute lontane dal movimento generale, sociale e politico”. In una lettera a Bolte del 29 novembre 1871, Marx così definisce il rapporto tra lotte politiche e lotte economiche: “il movimento politico della classe operaia ha naturalmente come scopo ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia stessa, a questo fine è naturalmente necessaria una previa organizzazione della classe operaia, sviluppata fino ad un certo punto e sorta dalle sue stesse lotte economiche”.
Nella Conferenza dei delegati dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, tenuta a Londra dal 17 al 23 settembre 1871, la questione del rapporto tra movimento economico e movimento politico è ancora una volta posta al centro della discussione. La Conferenza incarica il Consiglio generale di elaborare una risoluzione, affidato a Marx ed Engels. Nel testo preparato, Marx scrive: “contro questa violenza delle classi dominanti la classe operaia si può opporre solo in quanto classe, costituendosi in partito politico autonomo, in contrapposizione a tutte le formazioni politiche della classi dominanti; che tale costituzione della classe operaia in partito politico è necessaria per il trionfo della rivoluzione sociale e del suo fine ultimo, l’eliminazione delle classi”. La lotta, intrapresa da Marx per l’affermazione della necessità, oltre che delle organizzazioni sindacali, del partito politico, porterà all’inserimento, nel corso della Conferenza dell’Aia del settembre 1872, di un apposito articolo (il 7a) negli statuti generali dell’Internazionale: “Nella sua lotta contro il potere unificato delle classi possidenti il proletariato può agire come classe solo organizzandosi in partito politico autonomo, che si oppone a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti. Questa organizzazione del proletariato in partito politico è necessaria allo scopo di assicurare la vittoria della rivoluzione sociale e il raggiungimento del suo fine ultimo: la soppressione delle classi. L’unione delle forze della classe operaia, che essa ha già raggiunto grazie alla lotta economica. Deve anche servirle da leva nella lotta contro il potere politico dei suoi sfruttatori”.
Friedrich Engels in un articolo pubblicato il 4 giugno 1881 dal The Labour Standard, settimanale delle Trade Unions, osserva che esse hanno raggiunto una forza considerevole “tra uno e due milioni di iscritti (…) una potenza con cui ogni governo della classe dominante (…) deve fare i conti” esse “concorrono alla determinazione del livello dei salari, e quanto meno assicurano all’operaio nella sua lotta contro il capitalista alcuni mezzi, con cui si può difendere”. Nel corso dell’articolo osserva che la lotta di classe è un dato di fatto, indipendente dalle volontà: le Trade Unions con la loro esistenza dimostrano questo fatto almeno “finché un abbassamento dei salari sarà il mezzo migliore per aumentare il profitto, anzi, finché esisterà il sistema stesso del salari”. Ma, continua Engels, “una lotta tra due grandi classi sociali diventa inevitabilmente una lotta politica (...) nella lotta politica classe contro classe l’organizzazione è l’arma fondamentale”.

Il contributo di Lenin

Lenin, in un articolo pubblicato dal Raboceie Dielo nel dicembre 1899, riprende le elaborazioni di Marx ed Engels sulla questione. Scrive Lenin: “Quando si costituì l’Associazione internazionale degli operai, la questione dell’importanza dei sindacati operai e della lotta economica venne sollevata già al primo congresso, a Ginevra, nel 1866 (…) Essa riconosceva che i sindacati operai non devono occuparsi esclusivamente della ‘lotta immediata contro il capitale’ e tenersi lontani dal movimento politico e sociale generale della classe operaia; i loro scopi non devono essere ‘ristretti’, ma tendere all’emancipazione generale dei milioni e milioni di lavoratori oppressi”.
Nel Che fare, pubblicato nel marzo 1902, Lenin esplicita, tra l’altro, la natura dei sindacati, dei livelli di spontaneità e coscienza della classe ma, soprattutto, modalità e ruolo di intervento politico del Partito rivoluzionario: “La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia con le sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc. Il tradunionismo non esclude affatto ogni politica, come talvolta si crede. Le Trade Unions hanno sempre fatto una determinata agitazione politica e una determinata lotta politica ma non socialdemocratica”, cioè, diremmo oggi, comunista rivoluzionaria (il termine socialdemocratico, anche nelle citazioni che seguono, va inteso in questo senso, ndr). La coscienza comunista nella classe pertanto “poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno”, dal partito rivoluzionario. E continua “La socialdemocrazia dirige la lotta della classe operaia non soltanto per ottenere condizioni vantaggiose nella vendita della forza-lavoro, ma anche per abbattere il regime sociale che costringe i nullatenenti a vendersi ai ricchi (…) La socialdemocrazia rivoluzionaria ha sempre compreso e continua a comprendere nella propria azione la lotta per le riforme, ma approfitta dell’agitazione economica non soltanto per presentare al governo rivendicazioni di ogni genere, ma anche (e innanzitutto) per rivendicare la soppressione del regime autocratico. Essa ritiene inoltre suo dovere presentare al governo quest’ultima rivendicazione non soltanto sul terreno della lotta economica, ma su quello di tutte le manifestazioni della vita politica e sociale. Insomma, essa subordina la lotta per le riforme alla lotta rivoluzionaria per la libertà e il socialismo”. Lenin aggiunge in una nota “Il compito dei socialdemocratici non si limita all’agitazione politica sul terreno economico, esso consiste nel trasformare la politica tradunionista in lotta politica socialdemocratica, nell’approfittare delle faville di coscienza politica cha la lotta economica ha acceso negli operai per elevare gli operai sino alla coscienza politica socialdemocratica”. Infatti, continua Lenin, “la lotta politica della socialdemocrazia è molto più vasta e molto più complessa della lotta economica degli operai contro i padroni e contro il governo. Parimenti (e per questa ragione) l’organizzazione di un partito socialdemocratico rivoluzionario deve essere necessariamente distinta dall’organizzazione degli operai per la lotta economica. L’organizzazione degli operai deve anzitutto essere professionale, poi essere la più vasta possibile (…)Le organizzazioni operaie per la lotta economica devono essere organizzazioni tradunioniste. Ogni operaio socialdemocratico deve, per quanto gli è possibile, sostenerle e lavorarvi attivamente. Ma non è nel nostro interesse esigere che solo i socialdemocratici possano appartenere alle associazioni sindacali, perchè ciò restringerebbe la nostra influenza di massa”: le organizzazioni sindacali pertanto devono essere “molto larghe (…) e quanto più saranno larghe, tanto più la nostra influenza su di esse si estenderà, non solo grazie allo sviluppo spontaneo della lotta economica, ma anche grazie all’azione cosciente e diretta degli aderenti socialisti sui loro compagni”. Al contrario, continua Lenin, il partito deve essere “un’organizzazione di rivoluzionari (…). Per questa caratteristica comune ai membri dell’organizzazione nessuna distinzione deve assolutamente esistere fra operai e intellettuali, e a maggiore ragione nessuna distinzione sulla base del mestiere”.
Lenin in Un passo avanti e due indietro specifica l’azione del partito rivoluzionario nel sindacato: “Il partito deve sforzarsi e si sforzerà di permeare del proprio spirito, di subordinare alla propria influenza le unioni di categoria, ma proprio nell’interesse di questa influenza esso deve separare gli elementi pienamente socialdemocratici (che entrano nel partito socialdemocratico) da quelli non pienamente coscienti e politicamente non del tutto attivi, e non confondere gli uni con gli altri, come vorrebbe il compagno Axelrod” (un dirigente menscevico, ndr).
Il concetto viene ripreso, da Lenin, nella prefazione all’opuscolo di Voinov Sull’atteggiamento del partito verso i sindacati del novembre del 1907, in cui scrive: “La differenza tra il bolscevismo e il menscevismo non sta nel fatto che il primo neghi il lavoro nei sindacati o nelle cooperative, ecc., ma nel fatto che il primo segue una linea diversa nel lavoro di propaganda, agitazione e organizzazione della classe operaia. Oggi l’attività nei sindacati acquista, senza dubbio, un’enorme importanza. In contrapposizione al neutralismo dei menscevichi, noi dobbiamo svolgere quest’attività ponendoci lo scopo di avvicinare i sindacati al partito, di sviluppare la coscienza socialista e di comprendere i compiti rivoluzionari del proletariato. Nell’Europa occidentale il sindacalismo rivoluzionario è stato in molti paesi il risultato diretto e inevitabile dell’opportunismo, del riformismo e del cretinismo parlamentare”.
Il sindacalismo rivoluzionario, come scrive Lenin, è un fenomeno che si diffonde in Europa e negli Stati Uniti d’America tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta in contrapposizione al riformismo socialdemocratico e alle sue politiche. Le sue varianti vanno dal sindacalismo rivoluzionario francese all’anarcosindacalismo spagnolo; in Italia le prime espressioni risalgono all’inizio del ‘900 e sono connesse a una corrente per alcuni anni interna al Partito socialista (fino al 1907), in cui si mescolano i residui della tradizione operista con l’aggiunta di filoni di sindacalismo anarchico. Il sindacalismo rivoluzionario francese si sviluppa proprio in opposizione all’ingresso di un parlamentare “socialista”, Alexandre Millerand, quale ministro del commercio dell’industria e del lavoro, nel governo liberale francese di Waldeck-Rousseau nel 1899, nonché come reazione al suo progetto legislativo sull’arbitrato nelle vertenze sindacali e sulla regolamentazione dello sciopero. I principi su cui il sindacalismo rivoluzionario si organizza sono: l’autonomia sindacale rispetto ai partiti politici e il rigetto della lotta politica complessiva; la subordinazione dell’azione politica all’azione sindacale; lo sciopero come azione diretta dei lavoratori; il sindacato come strumento centrale per le conquiste immediate e in prospettiva della gestione della produzione; strutturazione sindacale prevalentemente di natura federale su basi territoriali e in base ai diversi settori lavorativi. Proprio a dimostrazione della natura centrista del sindacalismo rivoluzionario queste concezioni non escluderanno la partecipazione ai governi di collaborazione di classe in Spagna nel 1936-1937.
A differenza dei sindacalisti rivoluzionari i menscevichi russi e i socialdemocratici europei distinguevano nettamente i compiti del partito da quello dei sindacati, riconoscendo al sindacato autonomia e neutralità nella lotta per “il miglioramento delle condizioni di lavoro nel quadro del regime capitalistico, allo scopo di ottenere condizioni migliori di vendita della forza-lavoro” e al partito la lotta parlamentare per le riforme. La polemica di Lenin si sviluppa contro la teoria della neutralità dei sindacati, espressa da entrambe le correnti del movimento operaio: esse infatti convergono nella negazione del ruolo dirigente del partito nella trasformazione socialista. Ma se la prima concezione è una reazione primitiva e infantile al riformismo, la seconda serve a “rafforzare l’influenza della borghesia sul proletariato”. Lenin nello scritto, del marzo 1908, Neutralità dei sindacati scrive: “gli interessi di classe della borghesia suscitano inevitabilmente la tendenza a costringere i sindacati nel quadro di una attività minuta e meschina sul terreno del regime esistente, a distoglierle da ogni legame con il socialismo, la teoria della neutralità è il paludamento ideologico di questa tendenza borghese”. Ma, continua Lenin, non bisogna “mai perdere di vista l’unità dell’organizzazione sindacale”.
Lenin studia queste tendenze borghesi proprio a partire dall’analisi, espressa in diverse lettere, di Engels sui processi che investono le Trade Unions, dove dominano “uomini che sono venduti alla borghesia o per lo meno pagati da essa”, un processo degenerativo delle organizzazioni operaie legato ai sovrapprofitti del “monopolio coloniale e del monopolio nel mercato mondiale dell’Inghilterra”.
Nell’ottobre 1916 in L’imperialismo e la scissione del socialismo Lenin scrive: “La borghesia di una grande potenza imperialista può corrompere economicamente gli strati superiori dei propri operai (…) perchè il monopolio da un sovrapprofitto. Di questo sovrapprofitto i capitalisti possono sacrificare una piccola parte (e persino assai considerevole!) per corrompere i propri operai, per creare una specie di alleanza (ricordate le famose alleanze delle Trade Unions inglesi con i loro padroni, descritte dai Webb), un’unione degli operai di una data nazione con i propri capitalisti contro gli altri paesi (…). E’ un fatto che i partiti operai borghesi, come fenomeno politico, sono stati già creati in tutti i paesi capitalistici progrediti, che senza una lotta decisa e implacabile, su tutta la linea , contro questi partiti o fa lo stesso gruppi, correnti, ecc non si può neanche parlare di lotta contro l’imperialismo, di marxismo, di movimento operaio socialista”.
La Rivoluzione d’Ottobre esercita una spinta propulsiva per la costituzione di partiti comunisti, attraverso la scissione dai partiti socialdemocratici e socialisti. Specialmente in Europa in alcune sezioni della Terza Internazionale emergevano posizioni contrarie in merito alla partecipazione alle elezioni politiche e all’attività in seno alle organizzazioni sindacali egemonizzati dalla burocrazia riformista. Lenin, per rispondere a queste posizioni nell’aprile-maggio 1920, scrive L’estremismo, malattia infantile del comunismo, dove, a proposito dei sindacati, dice: “I sindacati, all’inizio dello sviluppo capitalistico, hanno costituito un eccezionale progresso per la classe operaia, in quanto hanno rappresentato il passaggio dalla dispersione e dall’impotenza degli operai ai primi germi dell’unità di classe. Quando poi ha cominciato a svilupparsi la forma suprema dell’unità di classe dei proletari, il partito rivoluzionario del proletariato (...), i sindacati hanno cominciato a rivelare inevitabilmente alcuni tratti reazionari, una certa angustia corporativa, una certa tendenza all’apoliticismo, una certa fossilizzazione, ecc. In paesi più progrediti rispetto alla Russia quel certo carattere reazionario dei sindacati si è manifestato, e doveva indubbiamente manifestarsi, con molta più forza che da noi (…). I menscevichi dell’Occidente si sono annidati molto più stabilmente nei sindacati; in Occidente si è delineato – con molta più forza che da noi – uno strato di aristocrazia operaia corporativistica, gretta, egoista, sordida, interessata, piccolo-borghese, di mentalità imperialista, asservita e corrotta dall’imperialismo”. La lotta contro questa burocrazia sindacale “riformista e centrista” continua Lenin “deve essere condotta implacabilmente (…). Ma noi conduciamo la lotta contro l’aristocrazia operaia in nome della massa operaia e per attrarre questa massa dalla nostra parte; conduciamo la lotta contro i capi opportunisti e socialsciovinisti per attrarre dalla nostra parte la classe operaia”.
Come Lenin aggiungerà in diversi scritti del periodo, “la rivoluzione proletaria è impossibile senza la simpatia e l’appoggio dell’immensa maggioranza dei lavoratori per la loro avanguardia. Non lavorare all’interno dei sindacati reazionari significa abbandonare le masse operaie arretrate o non abbastanza evolute all’influenza dei capi reazionari, degli agenti della borghesia, dell’aristocrazia operaia, ossia degli operai imborghesiti”. Pertanto “bisogna lavorare assolutamente là dove sono le masse”. Lenin, proprio per segnare una discontinuità con l’operato della Seconda Internazionale, chiede che la Terza Internazionale, nel suo secondo congresso mondiale, si faccia carico di “non eludere la questione, non attenuare le questioni scottanti, ma sollevarle in tutta la loro asprezza, e soprattutto continua deve condannare in generale la politica della non partecipazione ai sindacati reazionari”.

I primi congressi della Terza Internazionale

Il secondo congresso della Terza Internazionale, svoltosi dal 17 luglio al 7 agosto 1920, affronterà, tra l’altro, la questione sindacale in apposite tesi: Il movimento sindacale, i comitati di fabbrica e di officina. Nella discussione, la questione sindacale viene affrontata nella sua complessità. Le tesi analizzano il ruolo controrivoluzionario svolto dalla burocrazia sindacale riformista nel corso della prima guerra imperialista (1914-1918) nei principali paesi dell’Europa occidentale ma, finita la guerra, si rileva proprio in questi paesi, come conseguenza del peggioramento delle condizioni generali di vita e di lavoro, “una crescita prodigiosa dei sindacati” per mezzo dei quali “le masse cercano di farsene un’arma per la lotta”. Ma, ancora una volta, attraverso la burocrazia sindacale riformista la borghesia “impedisce che le azioni isolate di differenti categorie operaie si fondano in una generale azione di classe”. Pertanto, continuano le tesi, “essendo un dato di fatto la tendenza delle larghe masse operaie ad entrare nei sindacati e considerando il carattere obiettivamente rivoluzionario della lotta che queste masse sostengono a dispetto della burocrazia professionista, è importante che i comunisti di tutti i paesi facciano parte dei sindacati e lavorino per farne organi coscienti della lotta per il rovesciamento del sistema capitalista e per il trionfo del comunismo. Essi devono prendere l’iniziativa di creare sindacati ovunque non ne esistano ancora. Ogni diserzione volontaria del movimento professionale, ogni tentativo di scissione artificiale di sindacati (…) rappresenta un’enorme danno per il movimento comunista. Esso scarta dalla massa gli operai più avanzati, più coscienti, e le spinge (le masse) verso i capi opportunisti che lavorano negli interessi della borghesia. Se capita però che la scissione ci ponga come una necessità assoluta, non vi si dovrà ricorrere che quando vi sia la certezza che i comunisti riusciranno (…) a convincere le larghe masse operaie che la scissione si giustifica (…) con gli interessi concreti immediati della classe operaia, corrispondenti alle necessità dell’azione sul terreno economico. Nel caso in cui una scissione divenga inevitabile, i comunisti dovrebbero accordare una grande attenzione a che tale scissione non li isoli dalla massa operaia (...). Dove la scissione tra le tendenze sindacali opportuniste e quelle rivoluzionarie si è già prodotta, i comunisti hanno l’obbligo di dare il loro contributo a questi sindacati rivoluzionari, di sostenerli, di aiutarli a liberarsi dei loro pregiudizi sindacalisti e a collocarsi sul terreno del comunismo, poiché quest’ultimo è l’unica bussola fedele e sicura in tutti i complessi problemi della lotta economica. Ma l’aiuto prestato ai sindacati rivoluzionari non deve significare l’uscita dei comunisti dai sindacati opportunisti. Essi devono giocare un ruolo di elemento unificatore, morale e pratico, tra gli operai organizzati, per una lotta comune tendente a distruggere il regime del capitale. Nell’epoca in cui il capitalismo cade in rovina, la lotta economica del proletariato si trasforma in lotta politica molto più rapidamente che nell’epoca dello sviluppo pacifico del regime capitalistico. Ogni conflitto economico importante può porre all’ordine del giorno, di fronte agli occhi degli operai, il problema della rivoluzione. E’ dunque dovere dei comunisti far risaltare di fronte agli operai, in tutte le fasi della lotta economica, che questa lotta può essere coronata da successo soltanto quando la classe operaia abbia vinto la classe capitalista in una battaglia campale e si incarichi, una volta stabilita la sua dittatura, dell’organizzazione socialista del paese. E’ partendo da ciò che i comunisti devono tendere a realizzare, nella misura del possibile, una perfetta unione tra sindacati e partito comunista subordinando quelli a questo, all’avanguardia della rivoluzione. A tal fine i comunisti devono organizzare in tutti questi sindacati e consigli di fabbrica frazioni comuniste che li aiuteranno ad impadronirsi del movimento sindacale e a dirigerlo”. Infine contro il nazionalismo delle burocrazie sindacali riformiste, “gli operai comunisti di tutti i paesi, membri dei sindacati, devono.. lavorare per la creazione di un fronte sindacale internazionale…appoggiare ogni azione rivoluzionaria, sia nel loro paese che negli altri. Essi devono orientarsi, a questo scopo, verso la più grande centralizzazione dell’azione (…) lo faranno aderendo all’Internazionale comunista”.
Il terzo congresso svoltosi nel luglio 1921 ritorna sulla questione sindacale nelle Tesi sull’Internazionale comunista e l’Internazionale dei sindacati rossi. In esse viene sviluppata la lotta contro il tentativo delle forze riformiste e borghesi di iniettare tra le masse operaie la concezione della “neutralità dei sindacati, della loro apoliticità, della loro apartiticità”: una concezione mirante ad impedire attraverso la falsa coscienza della neutralità dei sindacati la direzione del partito comunista delle masse operaie.
Le Tesi distinguono infatti ruolo e composizione delle due organizzazioni, mentre “il Partito comunista è l’avanguardia del proletariato (…). I sindacati sono un’organizzazione di massa del proletariato, il cui sviluppo mira a farne un’organizzazione comprendente tutti i lavoratori, perfino quelli più arretrati del proletariato (…). Nell’immediato futuro il compito principale di tutti i comunisti consiste in un lavoro costante, attivo ed ostinato al fine di conquistare la maggioranza dei lavoratori in tutti i sindacati (…) La forza di ogni partito si misura soprattutto dalla influenza reale che esso esercita sulle masse operaie entro i sindacati. Il partito deve saper esercitare un’influenza decisiva sui sindacati, senza però pretendere di tenerli sotto tutela. Soltanto le cellule comuniste dei sindacati sono subordinate al partito, non già i sindacati in quanto tali”. Proprio per esercitare questa egemonia le Tesi elaborano un Programma d’azione, che si articola secondo il metodo delle rivendicazioni immediate e transitorie.
Il quarto congresso, svoltosi nel dicembre 1922, nelle Direttive del IV congresso per l’azione comunista nei sindacati rileva come in risposta alla controffensiva della borghesia la burocrazia sindacale è incapace di opporre una seria resistenza, anzi mantiene una politica di collaborazione di classe con governi e padronato. Ne consegue la disillusione delle masse e l’indebolimento generale dei sindacati. Di più, mentre cedevano all’offensiva del capitale la burocrazia riformista da un alto e l’anarcosindacalismo dall’altro iniziavano l’attacco contro le cellule comuniste nei sindacati. Entrambi le correnti innalzarono la parola d’ordine della neutralità e dell’indipendenza dei sindacati. Queste teorie borghesi tendono a scindere la politica dall’economia, tendono a relegare il sindacato al puro sindacalismo. Il Quarto Congresso ribadisce pertanto la necessità per i comunisti di “prendere l’iniziativa di creare all’interno dei sindacati un blocco insieme ai lavoratori rivoluzionari di altre tendenze”.

Il contributo della Quarta Internazionale

Nel Programma di Transizione approvato dal congresso di fondazione della Quarta Internazionale nel 1938 riserva ai sindacati un capitolo: “I sindacati nell’epoca di transizione”. In esso si riafferma come “nella lotta per le rivendicazioni parziali e transitorie, gli operai hanno attualmente più che mai bisogno di organizzazioni di massa, in primo luogo di sindacati”. All’interno di questi, i comunisti rivoluzionari “lottano implacabilmente contro il tentativo di sottomettere i sindacati allo Stato borghese e di legare il proletariato con l’arbitrato obbligatorio. Quindi, continuano le tesi, “è solo sulla base di tale lavoro che è possibile lottare (…) contro la burocrazia riformista, compresa quella stalinista (…). I tentativi settari di costruire e mantenere piccoli sindacati rivoluzionari come una seconda edizione del partito, implicano, in realtà, una rinuncia alla lotta per la direzione della classe operaia”.
A differenza dei sindacalisti non bisogna scadere nel “feticismo dei sindacati”. Essi infatti “dati i loro scopi, la loro composizione e la natura del loro reclutamento, non possono avere un organico programma rivoluzionario; ed è per questo che non possono sostituire il partito”. Anzi, “in quanto organizzazioni degli strati superiori del proletariato, i sindacati (…) sviluppano forti tendenze alla conciliazione con il regime democratico-borghese”. Peraltro, come sempre più spesso si verifica anche oggi, “quando la situazione della borghesia diventa particolarmente difficile, i capi dei sindacati diventano di solito ministri borghesi”.
Il partito, in particolare nei periodi di eccezionale slancio del movimento operaio, non deve temere la “rottura aperta con l’apparato conservatore dei sindacati”. Infatti, “se è criminoso voltare le spalle alle organizzazioni di massa per accontentarsi di finzioni settarie, non è meno criminoso tollerare passivamente la subordinazione del movimento rivoluzionario delle masse al controllo di cricche burocratiche apertamente reazionarie o conservatrici”. Anzi, nel corso della lotta, considerato che i sindacati raggruppano una parte della classe operaia, il partito deve contribuire a “creare organizzazioni specifiche, che comprendano tutta la massa in lotta: i comitati di sciopero, i comitati di fabbrica, e infine, i soviet (…). Il sindacato non è fine a se stesso, ma soltanto uno degli strumenti da utilizzare nella marcia verso la rivoluzione proletaria”.

Un altro contributo di Trotsky

Nell’articolo trovato sul suo tavolo, dopo l’assassinio avvenuto il 20 agosto 1940, in forma di bozza, Lev Trotsky scrive: “nello sviluppo o meglio nella degenerazione delle organizzazioni sindacali moderne nel mondo intero, c’è una caratteristica comune: la loro connessione con il potere statale e la loro crescita unitamente al potere statale stesso”. Questo processo è messo in relazione allo sviluppo del capitalismo monopolistico, al suo legame con lo Stato nelle metropoli imperialiste; nei paesi coloniali e semicoloniali si lega al costituirsi di strati di aristocrazia e burocrazia operaia e ai legami di protezione, di appoggio, di arbitrio che essa istaura con i governi della periferia capitalista.
Ne consegue che “I sindacati dei nostri tempi possono o fungere da strumenti ausiliari del capitalismo imperialistico per subordinare e disciplinare gli operai e per bloccare la rivoluzione o, al contrario, divenire strumenti del movimento rivoluzionario del proletariato. La neutralità dei sindacati è assolutamente e irreversibilmente una cosa del passato (…) il lavoro all’interno dei sindacati non solo non perde affatto la sua importanza, ma resta importante come prima e, in un certo senso, è più importante che mai per ogni partito rivoluzionario. Si tratta essenzialmente della lotta per la influenza sulla classe operaia. Ogni organizzazione, ogni partito, ogni tendenza che assuma una posizione ultimatista nei confronti dei sindacati, cioè, in sostanza volta le spalle alla classe operaia, semplicemente per disgusto verso le sue organizzazioni, è destinata a morire”.
Questa lotta, continua Trotsky, deve basarsi quindi sulle seguenti due parole d’ordine: “piena e incondizionata indipendenza dei sindacati nei confronti dello Stato capitalista. Ciò significa lottare per fare dei sindacati strumenti delle larghe masse sfruttate e non strumenti dell’aristocrazia operaia; democrazia sindacale. Questa seconda deriva direttamente dalla prima e presuppone per la sua realizzazione la completa libertà dei sindacati dallo stato imperialista o coloniale”.
Nell’epoca della decadenza imperialista “i sindacati possono essere realmente indipendenti solo nella misura in cui siano consapevoli di essere nell’azione strumenti della rivoluzione proletaria. In questo senso, il programma di rivendicazioni transitorie (…) non è solo il programma per l’azione del partito, ma nei suoi tratti fondamentali è anche il programma per l’azione dei sindacati. Di fatto, nelle condizioni attuali, l’indipendenza dei sindacati in un senso di classe, nei loro rapporti con lo Stato borghese, può essere assicurata solo da una direzione completamente rivoluzionaria, cioè dalla direzione della IV Internazionale. Questa direzione, naturalmente, deve e può essere razionale e garantire nei sindacati il massimo di democrazia possibile nelle attuali condizioni concrete”.


II. sindacato e modelli contrattuali in Italia

In Italia sono presenti una pluralità di sindacati di sinistra, il sindacato più grande per numero di iscritti e nelle categorie è la Cgil, seguono altri sindacati con un numero minore di iscritti (Usb, Cub, Cobas).

  • La Cgil

La Cgil, che nel 2006 festeggia i 100 anni di esistenza, senza dubbio raggruppa la maggioranza dei lavoratori sia nel pubblico impiego che nel settore privato ed industriale. Seppur nelle linee essenziali distingueremo due periodi di questa organizzazione sindacale, prima e dopo il fascismo. La Cgil ha avuto fin dalla fondazione una maggioranza riformista, ma nel primo periodo erano presenti nell’organizzazione sindacale forti tendenze di classe e rivoluzionarie, nel secondo periodo, proprio per l’assenza di un partito comunista rivoluzionario, queste vengono meno. La componente del sindacalismo rivoluzionario scinde dalla Cgdl nel 1912.
Al quinto congresso della Cgd, svoltosi nel febbraio 1921, si afferma nella Confederazione sindacale la sinistra di classe e rivoluzionaria, quando i dirigenti sindacali del Pcd’I, partito costituitosi un mese prima per scissione del Psi, presentano un proprio ordine del giorno contrapposto alla maggioranza centrista e riformista ottenendo il 23% dei consensi.
L’intervento sindacale nel PCd’I rivestiva un compito centrale, in preparazione del Secondo Congresso del Partito, che si terrà nel marzo 1922, Antonio Gramsci e Angelo Tasca presentano una Risoluzione al Comitato Centrale del Pcd’I sull’intervento nei sindacati.
In questo importante documento i due dirigenti comunisti analizzano la formazione della burocrazia sindacale riformista, descritta come “una superstruttura che funziona come partito politico”, i cui membri presentano i caratteri “del funzionario piccolo-borghese”. Contro questa burocrazia sindacale riformista e centrista, la cui funzione è quella di assicurare “al capitalismo il consenso pacifico della classe operaia a un più intensificato sfruttamento”, lottano i comunisti costituendo una loro “rappresentanza permanente in seno al sindacato” sulla base di “un programma”. I membri del partito nel sindacato per essere credibili agli occhi delle masse devono “essere coerenti e disciplinati”, il dirigente comunista eletto negli organismi sindacali deve rimanere “in ogni circostanza fedele al programma per cui è stato eletto”. Un programma basato sulle rivendicazioni immediate e transitorie.
Allora come oggi, il problema che ha di fronte il Pcd’I “è quello dell’unificazione dell’azione delle grandi masse” in una situazione caratterizzata dalla presenza “di una molteplicità di centrali sindacali” (cattoliche, sindacaliste, anarchiche, repubblicane, ecc).
La risoluzione individua nella Cgdl la centralità, ma non l’unicità di intervento dei comunisti, infatti i comunisti organizzando proprie frazioni, sulla base del loro programma, sia nella Cgdl, “diretta in maggioranza dai riformisti”, sia nel Sindacato ferrovieri, su posizioni “sindacaliste e autonomiste”. Proprio perché “non vi è incompatibilità per i comunisti a militare in qualche organismo sindacale che anche limitatamente a tale località e categorie accolga notevole parte di lavoratori e che ovunque devono sorgere gruppi comunisti sindacali colla loro rete di collegamenti” esplicita il documento. Il fascismo e lo stalinismo spezzeranno la continuità storica del marxismo rivoluzionario in Italia e con esso la tendenza rivoluzionaria e di classe nel sindacato maggioritario del paese.
La Cgil unitaria ricostituitasi nel 1944 nasce nel segno della collaborazione di classe, sulla base del “Patto di Roma”, preparato dal socialista Buozzi (responsabile principale, come segretario della Fiom, dell’isolamento del movimento dei consigli e della conseguente sconfitta dell’occupazione delle fabbriche nel biennio rosso 1919-1920), insieme al rappresentante della Dc Gronchi e al rappresentante del Pci Di Vittorio. Buozzi non ha potuto firmare il documento perché ucciso dai nazisti.
La Cgil unitaria tra il ’44 e il ‘47, nel quadro della collaborazione di classe assicurata politicamente prima dal Cln (costituto dai partiti della sinistra e dai partiti democratico borghesi) e poi dai governi di unità democratica e fronte popolare, svolge la funzione di freno, sia degli “eccessi” nelle agitazioni spontanee operaie e popolari nelle zone liberate, sia delle epurazioni di padroni e quadri fascisti che gli operai tentano di realizzare nelle fabbriche. Dopo il 25 aprile 1945, la Cgil unitaria dà un contributo fondamentale per la ricostruzione dell’economia capitalistica e delle istituzioni democratico borghesi dello Stato italiano. Un patto sociale che verrà rotto unilateralmente dalle forze capitalistiche con l’estromissione dal governo nel maggio 1947 dei partiti della sinistra riformista e stalinista, il Psi e il Pci. Il governo di fronte popolare in Italia ha quindi termine sostituito da un governo di soli partiti borghesi.
Un anno dopo, nel 1948, inizia la fase delle rotture della Cgil unitaria e degli accordi separati. Nel 1950 si costituisce la Cisl, quale sponda sindacale democristiana, infine la Uil, quale sponda sindacale socialdemocratica e repubblicana.
Giuseppe Di Vittorio, nel corso del secondo congresso della Cgil svoltosi a Genova nel 1949, presenta il Piano del lavoro. Questo rappresentava il tentativo di rimettere in gioco la Cgil con un nuovo patto sociale centrato su un ipotesi di rilancio dell’economia capitalistica e della società italiana, aggiungendo la disponibilità della Cgil “a dare il suo appoggio ad un governo che dia le dovute garanzie per la sua attuazione” come recita la mozione finale, senza riscontro. Per circa un trentennio la Cgil, così come il maggior partito della sinistra, il Pci, saranno costretti all’opposizione dei vari governi di centro e di centrosinistra. Il proletariato italiano, proprio per la politica di collaborazione di classe portata avanti dai partiti della sinistra e dalla Cgil negli anni tra il 1943 e il 1947, ha perso non solo l’occasione di spezzare con il fascismo anche il sistema capitalistico, ma altresì di smantellare l’impianto contrattuale definito nel periodo del “corporativismo fascista” che subordinava la contrattazione agli obiettivi economici della nazione e basato su una struttura della retribuzione distinta per territori, per sesso e per età.
Bisognerà aspettare l’apertura di un nuovo ciclo di lotte operaie, studentesche e popolari negli anni ’60 e ’70 per smantellare il vecchio modello contrattuale e imporre al padronato e al governo un nuovo modello contrattuale rivendicativo. Dagli anni ’60 e per tutti gli anni ’70 la formazione del salario sarà infatti legata a tre livelli contrattuali: la scala mobile, che doveva difendere il salario reale dall’inflazione; i contratti nazionali di categoria, che tenevano conto dell’aumento di produttività medio dei vari settori; la contrattazione aziendale che poteva riferirsi ai maggiori aumenti di produttività aziendale. Questa struttura contrattuale rivendicativa a tre livelli viene progressivamente smantellata a partire dagli anni ’80.
Quelle lotte hanno come sbocco, in mancanza di un partito comunista rivoluzionario (lo spazio politico a sinistra del Pci era occupato da formazioni centriste), quello di riportare nella seconda metà degli anni ‘70 il Pci nell’area di governo (Enrico Berlinguer indicherà col termine “Compromesso storico” la nuova stagione di fronte popolare). Il Congresso della Cgil del giugno 1977 il cui contenuto è sintetizzato dalle parole del segretario generale Lama: “il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici sostanziali” – e la successiva Conferenza Nazionale di Cgil, Cisl e Uil che si tiene nel febbraio del 1978 al Palazzo dei Congressi all’Eur segnano il nuovo inizio delle politiche di collaborazione di classe nel segno della moderazione salariale: seguirà da lì a poco la grave sconfitta alla Fiat.
Gli anni ’80 iniziano con l’attacco alla scala mobile dei salari: l’accordo del 31 luglio ’92 (tra il governo Amato e i tre sindacati) segna il culmine di questa offensiva con l’eliminazione della scala mobile e il blocco della contrattazione aziendale. Con l’accordo del 23 luglio 1993 inizia la fase del modello contrattuale concertativo. La concertazione centralizzata tra organizzazioni sindacali, associazioni imprenditoriali e governo subordina le retribuzioni agli obiettivi di politica economica e compatibilità generale dello Stato. L’aumento dei salari è affidato da un lato al governo, che decide l’inflazione programmata che può essere recuperata sulle retribuzioni, dall’altro alla contrattazione aziendale (con i “premi di risultato” legati agli obiettivi aziendali). Si apre un quindicennio che, a fronte dell’attacco congiunto di padronato e governo, vede il sindacato gestire la pace sociale. Le conseguenze sono note: perdita costante dei salari, dei diritti e delle tutele.
In questo cinquantennio di storia sindacale la Cgil ha sempre conosciuto un’opposizione al suo interno (la Cgil Rossa al Sud, la Terza componente, Democrazia consiliare, Essere sindacato, Lavoro e società, la Rete 28 aprile), ma la costruzione di una sinistra sindacale classista, come nei primi anni di vita del PCd’I, è ancora all'ordine del giorno.