venerdì 16 novembre 2012

PER UN METODO LENINISTA NEL RAPPORTO CON LE ELEZIONI
(dal documento “Analisi, proposte e programma nella grande crisi capitalista” approvato al Secondo Congresso del Partito Comunista dei Lavoratori)
La partecipazione alle elezioni borghesi e la presentazione autonoma dei comunisti sono il riferimento centrale della nostra politica elettorale.
Entro un quadro più generale di padroneggiamento teorico e politico leninista della tattica elettorale, in funzione della costruzione indipendente del nostro partito.


 
La piena comprensione, teorica e politica, della questione elettorale è importante per l’orientamento politico dei rivoluzionari e lo sviluppo del proprio progetto indipendente. Anche su questo terreno, come sulle questioni programmatiche più generali, il leninismo rappresenta per il PCL un riferimento centrale. Non per ripeterne meccanicamente ogni formulazione, ma per assimilarne a fondo il metodo e la scuola. Evitando di riprendere involontariamente posizioni, argomenti, atteggiamenti, contro cui storicamente il marxismo rivoluzionario si è formato e forgiato.
I comunisti partecipano normalmente alle elezioni borghesi. L’intera tradizione rivoluzionaria comunista ha combattuto aspramente sia l’”astensionismo di principio”, sia più in generale ogni posizione di disimpegno o sottovalutazione dell’importanza delle scadenze elettorali. E questo non per una ragione “elettoralistico istituzionale”,
ma per la ragione esattamente opposta: la partecipazione ovunque possibile alle elezioni borghesi è un’occasione preziosa di propaganda rivoluzionaria tra le masse, di intervento nella lotta di classe, di costruzione del partito rivoluzionario. Tanto più nel caso di un piccolo partito, che ha l’esigenza vitale di estendere la riconoscibilità pubblica del proprio programma nella stessa avanguardia larga della classe ai fini del proprio radicamento e sviluppo. La battaglia del bolscevismo tra il 1907 e il 1910 contro la sua frazione “otzovista” che contestava la partecipazione alle elezioni della Duma; la battaglia di Rosa Luxemburg nel 1918 contro il rifiuto dei comunisti tedeschi di partecipare alle elezioni dell’Assemblea Costituente; ma soprattutto la forte battaglia di Lenin e della larga maggioranza della terza Internazionale comunista contro le posizioni astensioniste del bordighismo italiano, del Kapd tedesco, del tribunismo olandese (Gorter), hanno avuto questo segno costante.
Non si tratta affatto- diceva Lenin- di aderire al “parlamentarismo borghese” o di attenuare la denuncia della sua natura. Al contrario: si tratta di utilizzare a fondo con tutti i mezzi disponibili la tribuna delle elezioni borghesi- e l’eventuale elezione di una propria rappresentanza nelle istituzioni borghesi per allargare la denuncia del parlamentarismo e creare le condizioni del suo superamento rivoluzionario: lavorando a sviluppare, anche per questa via, la coscienza politica delle masse. Sotto questo profilo il rapporto dei rivoluzionari con le elezioni è esattamente opposto alla logica riformista. 

Per le sinistre riformiste il terreno elettorale è normalmente l’ambito di concretizzazioni di compromessi istituzionali con i partiti borghesi in vista di ministeri o assessorati. Per i rivoluzionari è un terreno di denuncia della borghesia, dei suoi partiti, delle politiche collaborative dei riformisti. Di conseguenza, è opposta la valenza e l’uso di eventuali eletti. Per le sinistre riformiste, gli eletti nelle istituzioni borghesi sono una pedina negoziale del “gioco istituzionale”. Per i comunisti sono preziosi tribuni del proprio programma rivoluzionario agli occhi del proletariato: e per questo fisiologicamente collocati, per principio e senza eccezioni, all’opposizione di ogni governo borghese (nazionale e locale). Per la stessa ragione i comunisti si battono per una legge elettorale coerentemente proporzionale, senza soglie di sbarramento e distorsioni maggioritarie: perché contrappongono il principio della piena rappresentanza democratica al feticcio della governabilità borghese. La battaglia per il proporzionale sarà oggetto di una specifica campagna del PCL.
La forma normale di partecipazione dei rivoluzionari alle elezioni, è quella della presentazione autonoma e alternativa. Nella tradizione rivoluzionaria le elezioni non sono un terreno di fronte unico d’azione, ma prevalentemente un terreno di propaganda e presentazione del proprio programma indipendente: non di ciò che unisce i rivoluzionari ad altri partiti, ma di ciò che li distingue o li contrappone ad essi (siano questi i partiti borghesi, oppure siano, su un versante diverso, partiti di sinistra riformista o centrista).
L’indipendenza elettorale dei comunisti, come espressione della loro indipendenza politica e programmatica, è un riferimento ricorrente del marxismo rivoluzionario. La presentazione elettorale autonoma dei comunisti è rivendicata da Marx nell’Indirizzo alla Lega del 1850, contro ogni ipotesi di blocco con la piccola borghesia democratica. E’ ampiamente rivendicata nella tradizione bolscevica contro la logica generale dei blocchi elettorali tra il menscevismo e l’opposizione borghese liberale (partito cadetto). E’ sostenuta da Trotsky in Germania all’inizio degli anni 30 contro la proposta avanzata dall’organizzazione centrista Sap di un candidato di fronte unico tra comunisti e socialdemocratici per le elezioni presidenziali (posizione tanto più significativa nel momento in cui Trotsky rivendicava il fronte unico d’azione contro il fascismo): “L’idea di far proporre il candidato alla presidenza dal fronte unico operaio è un’idea radicalmente sbagliata. Si può proporre un candidato solo sulla base di un programma ben definito. Il partito non ha il diritto di rinunciare, durante alle elezioni, alla mobilitazione dei suoi aderenti e all’inventario delle sue forze. La candidatura di partito, contrapposta a tutte le altre candidature, non può impedire in nessun modo l’accordo con altre organizzazioni per obiettivi immediati di lotta” (Trotsky, 1931).
I comunisti rifiutano di rimuovere o nascondere l’autonomia del programma comunista, e quindi del proprio partito, di fronte alle masse: questa è stata sempre l’indicazione di fondo. E questa indicazione si è frequentemente scontrata con l’impostazione centrista. Per il centrismo il rapporto con le elezioni è subordinato per lo più a considerazioni contingenti “di movimento” o all’inseguimento di “un vantaggio” immediato (reale o presunto), fuori dalla coerenza di un programma generale indipendente: da qui la frequente oscillazione tra disimpegno elettorale (“ci preoccupiamo delle lotte, non delle elezioni”) e la ricerca privilegiata di blocchi elettorali con i partiti riformisti (o di proprio nascondimento in liste genericamente “alternative”). Per il marxismo rivoluzionario, invece, il rapporto con le elezioni è sempre principalmente finalizzato al proprio progetto generale: da qui il privilegiamento della presentazione autonoma e alternativa.
Questa cornice generale non esaurisce, nella stessa esperienza storica, la problematica delle scelte elettorali dei comunisti. Al contrario consente di padroneggiarla, nella sua complessità e nelle sue articolazioni, subordinandola alla politica rivoluzionaria.
Negare per principio i compromessi, negare in generale ogni ammissibilità di compromessi, di qualunque genere essi siano, è una puerilità, che è persino difficile prendere sul serio” dichiarava Lenin nella critica dell’Estremismo (1920), riprendendo esattamente la critica di Engels ad alcuni comunardi blanquisti (1874).
L’essenziale - egli diceva- è saper distinguere “compromesso e compromesso”, dal punto di vista del progetto indipendente dei rivoluzionari: “Il compito di un partito realmente rivoluzionario non consiste nel proclamare un’impossibile rinuncia a qualsiasi compromesso, ma nel saper conservare, attraverso tutti gli inevitabili compromessi, la fedeltà ai principi, alla propria classe, al proprio compito rivoluzionario, alle preparazione della rivoluzione e all’educazione delle masse popolari per la vittoria della rivoluzione” (Lenin, settembre 17).
Questo metodo è valido in ogni campo della politica rivoluzionaria (come ad es. nel campo dell’azione sindacale quotidiana). E dunque è valido anche in campo elettorale. Quali sono i “compromessi”elettorali, obbligati o volontari, che sono compatibili coi principi e che possano favorire l’avanzamento della politica rivoluzionaria? La tradizione rivoluzionaria offre una risposta di metodo a questo interrogativo.

Per fare alcuni esempi:
a. I rivoluzionari possono accettare l’apparentamento di altri soggetti della sinistra attorno ai propri candidati: se ciò può favorire e rafforzare un più largo raggruppamento di forze attorno alla centralità della propria campagna e costruzione. Così come possono realizzare apparentamenti con altri soggetti della sinistra e/o di movimento, in evoluzione verso il partito, se questa scelta può accelerare tale evoluzione. In questi casi il “compromesso” volontario è direttamente finalizzato allo sviluppo del partito.
b. I rivoluzionari possono realizzare apparentamenti tecnici con altre forze di sinistra in presenza di leggi elettorali reazionarie che impediscano la loro presentazione indipendente: proprio considerando l’importanza della tribuna elettorale ai fini della propaganda rivoluzionaria. In questo compromesso è decisiva la riconoscibilità del partito rivoluzionario, del suo specifico programma, del suo simbolo di riferimento, di ciò che lo distingue dalle altre sinistre. Fuori e contro ogni indistinta aggregazione politica con riformisti e/o centristi (tipo “ liste anticapitaliste” “liste antagoniste”). E’ l’esperienza, ad esempio, che hanno condotto i bolscevichi nel 1907, a fronte della nuova legge elettorale zarista: quando realizzarono un blocco con i socialisti rivoluzionari per le elezioni alla Duma- in contrapposizione ai liberali e alla destra- senza minimamente cessare la propria battaglia di fondo, ideologica e politica, contro il populismo russo, lungo la durata dello stesso blocco.
c. I rivoluzionari possono realizzare, su un altro piano, forme particolari di tattica elettorale in occasione di elezioni di secondo grado e ai ballottaggi, anche in rapporto alla natura particolare di un regime politico: senza compromettere di una virgola la presentazione autonoma alle masse nel primo turno (“nella prima fase i candidati operai devono scendere in lotta unicamente in maniera autonoma, con liste proprie” insisteva Lenin), ma senza estraniarsi dalla lotta politica e dal rapporto col sentimento popolare. Così nelle elezioni di secondo grado previste dalla complessa legge elettorale zarista (assemblee di grandi elettori), i bolscevichi privilegiavano normalmente i cosiddetti “blocchi di sinistra” (basati sull’alleanza con la democrazia rivoluzionaria contadina) contro i liberali e la destra: per consolidare la demarcazione dal liberalismo borghese (in polemica col menscevismo) e al tempo stesso massimizzare la possibilità di elezione di propri candidati rivoluzionari. Ma laddove, eccezionalmente, i liberali erano più deboli degli zaristi (come nelle assemblee elettorali di governatorato) i bolscevichi votavano normalmente il candidato liberale contro il candidato zarista (“il blocco delle opposizioni”). Una contraddizione? Per nulla. Sullo sfondo di un regime autocratico (non di un’alternanza tra reazionari e liberali in un quadro democratico borghese com’è tuttora il nostro), e quando non era in discussione l’autonomia del proprio rapporto di massa (primo turno), i bolscevichi rifiutavano l’equidistanza elettorale tra liberali e zaristi (come i socialisti tedeschi, sotto il Kaiser, rifiutavano, nei ballottaggi, l’equidistanza tra liberali e candidati reazionari). E ciò proprio in funzione della battaglia per l’egemonia rivoluzionaria tra le masse, in contrapposizione e in alternativa alla borghesia liberale.
d. Compromessi elettorali con altre forze della sinistra possono essere indotti dalla dinamica della lotta di classe e dall’intervento in essa dei rivoluzionari. Fu il caso ad esempio della proposta di compromesso elettorale con i laburisti che Lenin suggerì nel 20 ai comunisti inglesi. Quando propose loro di concordare una suddivisione dei collegi elettorali col partito laburista, tale da favorire una loro vittoria contro liberali e conservatori; e in caso di rifiuto dei laburisti di “limitare la presentazione dei candidati comunisti ai soli seggi in cui la presentazione di candidature nostre non potrebbe portare alla vittoria del liberale contro il laburista”. Perché questa tattica? Per favorire la sconfitta di liberali e conservatori, affrettare la costituzione di un governo laburista, aiutare le masse a capire in base alla propria esperienza il carattere traditore di questo governo, estendere l’influenze dei comunisti tra le masse e favorire la rivoluzione sociale. Qual’era la condizione decisiva di questa tattica? La salvaguardia, dentro il “compromesso”, della piena libertà di agitazione, di propaganda, di attività politica dei comunisti e quindi della loro “piena libertà di smascherare” i dirigenti laburisti agli occhi della loro base. “ Senza questa condizione- diceva Lenin- non si deve fare alcun blocco, perché sarebbe un tradimento”. Ancora una volta il compromesso elettorale non è concepito come conciliazione col riformismo: ma come un mezzo di lotta contro di esso, a vantaggio del progetto rivoluzionario.
e. La stessa logica ispira un’altra possibile forma della tattica elettorale dei comunisti: quella dell’appoggio critico ad altre forze di sinistra, elettoralmente contrapposte ai partiti borghesi. “In tutti i collegi in cui non vi fossero candidati nostri, inviteremmo a votare il candidato laburista contro il borghese” diceva Lenin nel 20 ai comunisti inglesi. E continuava: “I compagni Silvia Pankurst e Gallacher sbagliano quando vedono in questa linea di condotta un tradimento del comunismo.. Al contrario la causa della rivoluzione ne avrebbe un indubbio vantaggio. Oggi per i comunisti inglesi è spesso molto difficile persino accostare le masse. Se io mi presento come comunista e invito a votare per Henderson contro Loyd George mi si ascolterà.. E potrò anche spiegare che io vorrei sostenere Henderson col mio voto proprio come la corda sostiene l’impiccato, che l’avvicinarsi del momento in cui gli Henderson formeranno un proprio governo dimostrerà che io ho ragione, e avrà per effetto quello di attrarre le masse dalla mia parte..”. Anche in questo caso, come si vede, la tattica elettorale non vuole affatto diplomatizzare il rapporto con i riformisti, ma assume un fine esattamente opposto: allargare l’influenza rivoluzionaria presso la loro base. Questa tattica leninista appartiene alla tradizione del marxismo rivoluzionario. E ha trovato forme molteplici di applicazione i contesti diversi e in relazione a partiti riformisti o centristi di diversa natura e consistenza. Ma in ogni caso la condizione decisiva del suo esercizio è l’aperta presentazione del proprio programma, la critica pubblica dei riformisti e/o centristi, la presentazione del partito rivoluzionario e della sua costruzione come unica vera alternativa.
La scelta dell’astensione elettorale, nell’ esperienza rivoluzionaria, rappresenta normalmente una scelta subordinata alla obiettiva impossibilità della propria diretta partecipazione elettorale e all’impossibilità o non opportunità di altre scelte. Ma non significa che si riduce necessariamente alla risultante passiva della mancata presentazione. L’indicazione di astensione può infatti assumere gradazioni e significati diversi in rapporto alla natura delle forze in campo e alla dinamica della lotta di classe. Lungo un arco di possibilità molto ampio che va dal rifiuto di un indicazione di voto tra i due tradizionali poli borghesi, ad una campagna
astensionista attiva (ad es. a fronte dell’esclusione arbitraria dei rivoluzionari dalle elezioni), sino all’autentico boicottaggio attivo delle elezioni borghesi: una scelta tradizionalmente legata allo sviluppo di una dinamica rivoluzionaria del movimento di massa che scavalca lo stadio elettorale dello scontro politico e pone la questione del potere (v. il boicottaggio bolscevico delle elezioni per la Duma di Bulyghin nel 1905, in piena crisi rivoluzionaria, e la successiva posizione antiboicottista da parte di Lenin dopo il riflusso della rivoluzione).
In ogni caso la posizione di astensione non è mai una posizione “morale” ma politica, legata allo sviluppo della politica rivoluzionaria. E per questo, in ogni caso, deve sempre combinarsi con la presentazione attiva delle nostre posizioni e del nostro programma.
Come si vede, tra la ricerca assolutamente prioritaria della propria diretta partecipazione alle elezioni borghesi, come forza pienamente autonoma e alternativa, e l’indicazione elettorale di astensione in assenza di questa possibilità, esiste una possibile articolazione di soluzioni tattiche, consegnataci dalla storia del nostro movimento: tutte legate, senza eccezione, alla centralità della prospettiva rivoluzionaria e alla piena salvaguardia dei principi. Questo grande bagaglio di attrezzi della tradizione rivoluzionaria non predetermina meccanicamente l’uso di questo o quell’altro strumento, a prescindere dall’analisi concreta della situazione data e dei suoi mutevoli sviluppi: il marxismo “è una guida per l’azione, non un dogma”. Ma certo definisce la ricchezza di un metodo generale e di un’esperienza storica che è assurdo ignorare per un partito come il nostro, che, a differenza del centrismo, assume il leninismo come proprio riferimento. La ricchezza di questo metodo deve inquadrare le scelte elettorali del PCL e lo stesso livello di discussione attorno ad esse. Proprio in funzione del nostro programma, dei nostri principi, della nostra costruzione indipendente. Che è l’alfa e l’omega di tutta la nostra politica.