lunedì 18 febbraio 2013

CONFINE ORIENTALE
La questione delle foibe tra imperialismo, fascismo e resistenza
di A. Marceca

Da quando nel 2004 il secondo governo Berlusconi ha deciso di istituire per via legislativa il “giorno del ricordo”, da celebrarsi il 10 febbraio, la questione delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata è diventata un’occasione di propaganda e mistificazione da parte di quelle forze reazionarie eredi di gravi responsabilità su quanto avvenuto in quella regione di confine. L’altra sponda dell’Adriatico è storicamente oggetto di interessi imperialistici da parte delle borghesia italiana e dei suoi governi. Il territorio del confine orientale è da secoli abitato da diversi gruppi nazionali con una netta prevalenza di popolazioni slave e per questo trasformata dall’occupante italiano in area di colonizzazione e di oppressione.

LE PREMESSE STORICHE
Per limitarci al Novecento, con il Patto di Londra, siglato il 26 aprile 1915 tra Italia e Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia), si prevedeva, in caso di vittoria nella guerra del 1914-1918, l'assegnazione all'Italia del Trentino, del Sud Tirolo, la Venezia-Giulia, la penisola dell'Istria, gran parte della Dalmazia e delle isole adriatiche. Finita la guerra, crollato l'Impero Asburgico, la conferenza di Parigi stabilisce la costituzione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Gli sloveni posti sotto occupazione dell'esercito italiano non si facevano illusioni: i loro connazionali delle Valli del Natisone, passati sotto l'Italia nel 1866, avevano subito un sistematico processo di "snazionalizzazione". Il combinarsi dell'occupazione militare e dell'iniziativa nazionalistica (impresa di D'Annunzio a Fiume) trovava riscontro nel Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 che assegnava all'Italia nuovi territori: l'Istria, la Dalmazia, la città di Zara, le isole di Cherso, Lussino, Lagosta, Pelagosa e, nel 1927, Fiume. La regione verrà denominata impropriamente Venezia Giulia. La borghesia slovena benché disponibile alla collaborazione, a condizione di preservare la propria identità e ruolo sociale, trova nel governo italiano, liberale prima e fascista poi, il fermo proposito di assimilare gli "alloglotti", come venivano chiamate le popolazioni slave. Trieste diviene terreno fertile per lo sviluppo del fascismo: "di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava", affermava Mussolini nel settembre 1920, "non si deve perseguire la politica che dà lo zucchero, ma quella del bastone". Un’indicazione immediatamente eseguita: le squadre fasciste si scatenarono contro i luoghi di aggregazione degli sloveni e dei croati, fino ad incendiare nel 1920 il Narodni Dom di Trieste.
Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, la repressione acquista il timbro delle leggi dello Stato. Il regio decreto del 15 ottobre 1925 proibisce l'uso delle lingue diverse da quella italiana. La lingua slovena e serbo-croata viene rimossa da tutti i luoghi pubblici e dalle insegne, con il regio decreto del 7 aprile del 1927 viene imposta l'italianizzazione dei cognomi, vengono soppressi e confiscati i beni delle organizzazioni culturali, ricreative ed economiche di sloveni e croati. La scuola è al centro della politica di "snazionalizzazione", gli insegnanti di lingua slovena vengono trasferiti e costretti a licenziarsi, la repressione investe anche i preti slavi in quanto "si ostinano a celebrare le funzioni religiose in lingua slovena".
Negli anni '28-'30 gli agricoltori slavi sono costretti a mettere all'asta le loro proprietà, acquisite da coloni italiani mediante l'Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie. La repressione negli anni '27-'43 condotta dal Tribunale Speciale fascista contro sloveni e croati è particolarmente feroce. La minaccia di finire "in fondo nella foiba" veniva sistematicamente utilizzata da nazionalisti e fascisti per intimidire le popolazioni slave.
Il 6 aprile 1941 l'Italia, dopo aver occupato l’Albania nel ’39, assieme alle forze dell'Asse sferra l'aggressione alla Jugoslavia che viene smembrata. L’Italia incorpora la Slovenia meridionale, il litorale Dalmata, Sebenico, Spalato, Ragusa, Cattaro e la regione della Carniola che costituiranno la nuova Provincia di Lubiana e il Governatorato della Dalmazia. La Macedonia meridionale e il Kosovo sono incorporati all’Albania, mentre il Montenegro diviene un protettorato. L'occupazione fu contrassegnata da particolare durezza: incendi di villaggi, fucilazioni, deportazioni in campi di sterminio italiani (202 complessivi, tra cui Arbe-Rab in Dalmazia e Gonars in Friuli) e tedeschi.

LA RESISTENZA
Le prime forme di resistenza si organizzano negli anni ’30, in particolare si formano due organizzazioni clandestine, la TIGR (dalle iniziali di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka) e la Borba (lotta), che lottano per la liberazione nazionale e l’unione alla Jugoslavia.
A Lubiana il 27 aprile 1941 si costituisce l'OF (Osvobodilna Fronta), a cui aderiscono personalità indipendenti e gruppi di ispirazione cristiano-sociale, con un ruolo egemone del Partito comunista sloveno. L'OF inizia la resistenza armata con l'obiettivo dell'indipendenza nazionale e l'unificazione della Slovenia nel quadro della Jugoslavia federativa, organizza forze prevalentemente contadine e popolari. Le forze della borghesia slovena restano in attesa della fine del conflitto o collaborano con l'occupante.
La risposta italiana è la repressione: nell'aprile del 1942 a Trieste viene istituito l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza che si caratterizzerà per i rastrellamenti, le violenze, le torture. Alla vigilia dell'8 settembre 1943, nella sola provincia di Lubiana si conteranno 33.000 persone deportate, pari al 10% della popolazione, ed un numero di fucilati, caduti in combattimento e morti nei campi non quantificati, ma dell'ordine di alcune migliaia (circa 7000 nei campi italiani). Tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943, crollate le strutture dello stato italiano, dissolto l'esercito regio con i comandanti in fuga alla ricerca di vie di salvezza, la Wehrmacht occupa i centri strategici e le città della Venezia Giulia, ma trascura per carenza di forze militari l'entroterra. Il vuoto di potere nella penisola istriana è presto riempito dall'insurrezione popolare e contadina. La rivolta coinvolge la popolazione lavoratrice italiana dei centri costieri e quella slava dell'interno, presenta connotazioni di liberazione nazionale e lotta di classe. Ad una prima fase spontanea con fenomeni di jacquerie segue l'assunzione del controllo politico-militare da parte del Novj (l'esercito di liberazione). Una liberazione assai fragile durata circa venti giorni, in alcune zone circa un mese. Tra l'11 e il 12 settembre 1943 le forze del Novj occupano Pisino, nel cuore dell'Istria, organizzandovi il Comando operativo. Nei villaggi le masse popolari attaccano i simboli e i rappresentanti dello Stato colonizzatore: podestà e segretari comunali, fascisti, carabinieri, commercianti, esattori delle tasse; nelle campagne i coloni e i mezzadri attaccano i possidenti terrieri italiani; nelle imprese industriali, cantieristiche e minerari, stessa sorte investe dirigenti, impiegati e capisquadra. La maggior parte viene inviata a Pisino per essere processata. Ma la guerra non era finita: il 22 settembre le truppe corazzate tedesche ricevono l’ordine di occupare l’Istria, “distruggere l’insurrezione slavo-comunista” ed instaurare "Operationszone Adriatsches Kusternland" comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana. L’offensiva, sostenuta dai fascisti italiani, inizia il 2 ottobre con rastrellamenti, massacri, incendi e fucilazioni. In questo contesto alcune centinaia (300-500) di prigionieri vengono gettate dalle formazioni partigiane in rotta nelle foibe istriane.
L'Amministrazione tedesca emana una serie di disposizioni e ordinanze: i giovani di leva vengono incorporati nella Wehrmacht o nella organizzazione tedesca del lavoro coatto Todt. A Trieste, nel lager di San Sabba trovano la morte migliaia di oppositori politici e combattenti partigiani sloveni, croati, italiani, renitenti alla leva, ebrei.
La borghesia industriale e finanziaria triestina vede nella annessione al Reich il rilancio commerciale della città e del porto. Nella Venezia Giulia si costituiscono corpi volontari di milizie fasciste, italiane e slovene, che collaborano col comando tedesco. Ma anche la resistenza si riorganizza, nella regione del confine orientale si costituiscono la Brigata Proletaria e Delavska Enotnost-Unità Operaia che collaborano con la resistenza jugoslava. Questo intreccio di contraddizioni nazionali e di classe si riversa nel movimento partigiano della Venezia Giulia, provocando a Trieste rotture nel CLN e a Udine scontri militari con formazioni partigiane di orientamento borghese, cattolico e nazionalista, come la Brigata Osoppo di Porzus.
L'offensiva finale jugoslava inizia il 20 marzo 1945 e sono i reparti del Novj ad arrivare il 1° maggio per primi a Trieste e Gorizia anticipando di un giorno le armate britanniche. In questo quadro, tra il maggio-giugno del '45, si ripresenterà il fenomeno delle foibe nell'entroterra carsico di Trieste e Gorizia con aspetti simili al precedente istriano.
Il PCJ pur aderendo alla politica stalinista della rivoluzione a tappe e ai fronti popolari con la borghesia nazionale, è costretto dalla dialettica stessa del processo rivoluzionario a superare la fase democratico-borghese (unificazione ed indipendenza nazionale, riforma agraria) fino a liquidare una borghesia nazionale che queste esigenze non aveva risolto o risolto parzialmente. Il nuovo potere jugoslavo si basava sull'Armata, sulla Difesa popolare, sull'Ozna, mentre erano assenti strutture consiliari di democrazia proletaria, tipo i soviet. Questo limite, la cui responsabilità va ascritta allo stalinismo e alla direzione del PCJ, segnerà profondamente la deformazione burocratica dello Stato jugoslavo.