LA
BATTUTA D'ARRESTO DEL RENZISMO
1
Giugno 2015
I
risultati delle elezioni amministrative del 31 Maggio misurano una
pesante battuta d'arresto del renzismo. Non necessariamente la sua
crisi. Ma la fine della sua dinamica espansiva e lo sgonfiamento
della sua bolla elettorale.
PORTATA
E SIGNIFICATO DEL VOTO
Il
successo straordinario di Renzi alle elezioni europee non stava solo
nel 41% dei voti riportati. Stava nell'aver bloccato e sconfitto
l'avanzata populista, a danno in particolare del M5S. Questo era il
dato che configurava il renzismo come strumento vincente della
governabilità borghese agli occhi della classe dominante. E al tempo
stesso come strumento di riscatto elettorale agli occhi di ampi
settori di popolo della sinistra disorientati e allo sbando. Le
elezioni del 31 Maggio disperdono quel raccolto. Il PD ritorna a
proporzioni bersaniane (23%). Il M5S conosce una relativa
affermazione (18%, il dato più positivo ottenuto in elezioni
amministrative regionali), pur subendo un'erosione a vantaggio di
Salvini. La Lega di Salvini, soprattutto, mette a frutto il nuovo
corso lepenista: capitalizzando la crisi di FI, sfondando in Centro
Italia (v. Toscana e Marche), trainando elettoralmente in misura
determinante la vittoria del Centrodestra in Liguria ( dove la Lega
quadruplica i voti), riportando un risultato plebiscitario nella
roccaforte veneta (dove somma voto a Zaia e voto a Salvini). La
pretesa di Renzi di ridimensionare la sconfitta subita esibendo la
conquista della maggioranza delle regioni in palio, o dando al
risultato un significato solo “amministrativo”, maschera la
realtà. La competizione regionale mai come in questo caso ha avuto
un marchio politico generale. Mai come in questo caso Renzi ha
investito la propria immagine nella contesa, e l'ha politicamente
persa. Lo prova il fatto che paradossalmente le due principali
affermazioni elettorali del PD (Campania e Puglia) sono state
ottenute da capi bastone locali (De Luca e Emiliano), relativamente
autonomi dal renzismo anche se sostenuti da Renzi. In Liguria dove la
competizione coinvolgeva più direttamente che altrove la figura di
Renzi su diverse frontiere dello scontro politico, la sconfitta è
stata inequivocabile. Più in generale il calo verticale del consenso
al PD tra elezioni europee e regionali è riconducibile
prevalentemente all'esperienza politica del governo Renzi, non a
fattori locali. In questo quadro, la sinistra politica riformista,
nelle sue diverse articolazioni e collocazioni, registra un risultato
critico. Con una indubbia particolarità in Liguria, dove il dato di
Pastorino (9%) è consistente (seppur inferiore alle ambizioni
iniziali), frutto anche di una spaccatura verticale del PD genovese:
e tuttavia è significativo lo scarto amplio tra il voto al candidato
presidente (voto personalizzato anti Paita) e il voto di lista. Nelle
Marche, in Campania, in Toscana (seppur nell'ultimo caso con un
risultato più rilevante, 6%) le sperimentazioni di laboratorio della
“sinistra unita” non riescono a capitalizzare che in misura
modesta la crisi del renzismo. Pesa proprio nel quadro di una
competizione politica l'assenza di un riferimento politico nazionale
capace di polarizzare e motivare il voto “a sinistra”, oltre alla
zavorra d'immagine di sconfitte e compromissioni passate. La crescita
consistente e relativamente uniforme dell'astensione a sinistra è
assai indicativa, a conferma della tendenza già registrata nelle
elezioni regionali dell'Emilia Romagna lo scorso autunno.
Complessivamente il dato elettorale fotografa dunque uno scenario
politico negativo: la crisi del renzismo è fondamentalmente
capitalizzata a destra; le lotte contro il Job Act e la “buona
scuola” non trovano una espressione rilevante, attiva e autonoma, a
sinistra. L'astensione registra prevalentemente un sentimento di
sfiducia passiva in più ampi settori del popolo di sinistra.
LA
CRISI DEL “PARTITO DELLA NAZIONE”
Il
progetto del Partito della Nazione registra una difficoltà evidente.
Il fine dell'operazione era ed è quello di combinare la
preservazione del blocco sociale tradizionale del centrosinistra
(parte della classe operaia industriale, lavoratori del settore
pubblico e pensionati) con lo sfondamento nel blocco sociale del
centro destra (piccola e media impresa). Su entrambi i versanti
l'operazione segna il passo. Sul versante del lavoro dipendente, dopo
la tele vendita degli 80 euro, la politica del governo paga il costo
sociale della guerra vinta contro l'articolo 18, lo scontro frontale
col grande sciopero della scuola, il contenzioso sulle pensioni. Il
vecchio blocco sociale del PD è stato investito da una frana di
consensi su ogni lato. Sul versante del blocco sociale di
centrodestra, i vantaggi assicurati con lo sgravio dell'Irap e dei
contributi alle imprese è compensato dalla difficoltà di ridurre la
tassazione immobiliare e dal peso elettorale della questione
migranti. La conseguenza è semplice: Renzi non riesce a
capitalizzare la crisi verticale di Forza Italia che va tutta a
beneficio della Lega. Mentre il consenso elettorale del centrodestra
complessivamente inteso non solo tiene ma si espande. Questa battuta
d'arresto rivela in realtà una questione di fondo: la difficoltà
del renzismo ad alimentare il proprio populismo di governo. Dopo
l'operazione strutturale degli 80 euro, dopo la sgravio fiscale e
contributivo legato al Job Act, il governo non trova altra benzina
per nutrire il Partito della Nazione. L'operazione tentata con la
restituzione anticipata del TFR ha fatto un flop clamoroso (500
richiedenti in tutta Italia contro la previsione governativa di un
50% di lavoratori interessati): perché la tassazione imposta per
ragioni di cassa l'ha resa svantaggiosa. Il DEF del 2015 è
altrettanto indicativo. Il “tesoretto” sperato si è dissolto
sotto i colpi della Corte Costituzionale (pensioni) e sotto l'effetto
di trascinamento finanziario delle operazioni precedenti. La crescita
ulteriore del debito pubblico non consente all'Italia di negoziare in
sede UE lo sfondamento del tetto del 3% sul deficit (concesso invece
alla Francia). Mentre l'uscita dalla recessione del capitalismo
italiano fatica a trasformarsi in reale ripresa (la crescita del 0,1%
nel primo trimestre 2015 è dovuta alla crescita degli investimenti
fissi lordi, non dei consumi finali; e la crescita degli investimenti
a sua volta è quasi interamente dovuta alla FIAT). In questo quadro
il governo non riesce a capitalizzare come avrebbe voluto la
combinazione fortunata del calo dell'euro, del prezzo del petrolio,
degli interessi sul debito pubblico (legato al quantitative easing
della BCE). Mentre la crisi greca minaccia ricadute sui titoli
pubblici italiani, e nuove sentenze della Corte istituzionale sono in
attesa, con le relative incognite, su partite finanziarie consistenti
( blocco degli stipendi pubblici).
RICADUTE
E INCOGNITE DEL DOPO VOTO
Il
populismo si conferma dunque come delizia e croce del governo Renzi.
Nessuna altra forma di governo ha dovuto il proprio successo al
richiamo populista quanto il renzismo. Ma proprio per questo il
destino del renzismo è affidato alla capacità di alimentarlo.
L'intera costruzione del renzismo si fonda sulla raccolta del
consenso. Il consenso non è solo il fine della politica di Renzi. E'
la leva della sua ambizione bonapartista. E' il mezzo di cui Renzi si
serve per scavalcare la relazione coi corpi intermedi della società
(sindacati e Confindustria), puntando al diretto rapporto di massa;
per riequilibrare i rapporti di forza con altri poteri dello Stato
(Magistratura e Presidenza della Repubblica); per polarizzare attorno
al proprio progetto un diffuso trasformismo politico negli stessi
ambienti parlamentari (fuori e dentro il PD); per ottenere uno spazio
negoziale in Europa. Il consenso è insomma la leva centrale del
rapporto di forza tra l'aspirante Bonaparte e ogni suo interlocutore
o avversario. Ma proprio per questo una crisi di consenso potrebbe
investire il renzismo più di ogni altro fenomeno politico. Se cede
il consenso cede l'architrave delle fortune del Capo. E un effetto
domino rischia in quel caso di rovinargli addosso, con la stessa
precipitazione della sua fulminea scalata. E' presto per valutare se
e in che misura l'esito del voto del 31 Maggio avrà effetti sulla
vicenda politico parlamentare. I passaggi delicati al Senato su
Riforma istituzionale e scuola saranno una prima occasione di
verifica. L'impressione è che l'assenza di alternative al renzismo
sul piano degli equilibri parlamentari consenta al governo uno spazio
di tenuta e di navigazione. Lo stesso esito del voto non prefigura
altre soluzioni politiche disponibili a breve per la classe
dominante: Confindustria mantiene l'appoggio al governo che più la
ignora ma che più ha dato ai padroni; la stampa borghese, con a capo
Repubblica, mantiene la scelta di investire su Renzi; lo stesso
crollo di Forza Italia, e la crescita parallela di grillismo e
salvinismo, rafforzano l'appoggio obbligato a Renzi da parte del
capitale finanziario quale unico strumento di governabilità. Né
Renzi, presumibilmente, cambierà registro della propria politica e
della propria ambizione. Il referendum istituzionale del 2016 resta
nel suo disegno l'”appuntamento con la storia”: l'incoronamento
plebiscitario del Presidente, la fondazione del nuovo Premierato in
pectore. E tuttavia la battuta d'arresto del 31 Maggio disegna la
linea di una prima crepa importante di tale progetto. Lo spazio di
una stabilizzazione reazionaria “di regime” attorno a Renzi, che
poteva aprirsi dopo la sua vittoria sull'articolo 18, si fa assai più
problematico. Mentre proprio il panorama politico tripartito fra
populismi reazionari rivali quale emerge dal voto conferma il punto
di fondo: solo l'irruzione sulla scena del movimento operaio può
capitalizzare a vantaggio dei lavoratori le difficoltà di Renzi,
scomponendo i blocchi populisti e aprendo dal basso uno scenario
nuovo. Diversamente quelle stesse difficoltà saranno il trampolino
di altre soluzioni reazionarie, contro gli operai e tutti gli
sfruttati.
IN
QUESTO CONTESTO, IL RISULTATO DEL PCL
In
conclusione, qualche notizia sul risultato elettorale del PCL. Ci
siamo presentati in un numero limitato di Regioni, a causa delle
astruse e antidemocratiche normative elettorali che, proprio per
queste elezioni, rendono necessario la raccolta di un numero
improponibile di firme (nelle realtà con molte provincie, anche
nell’ordine di decine di migliaia). Eravamo presenti quindi solo in
Umbria e in Liguria. In Umbria, eravamo in lista con Casa Rossa di
Spoleto, associazione politica locale con cui si è a lungo
collaborato in questi anni: abbiamo raccolto lo 0,5% (poco meno che
alle politiche del 2013, quando si era ottenuto lo 0,7%), a fronte
dell’1,6% di Umbria per un’altra Europa (alternativa al PD) e il
2,6% di SeL (in alleanza con il PD). Per dare un metro di paragone,
nelle scorse elezioni regionali il PCL non si era presentato, la FdS
aveva il 6,9% e Sel il 3,4% (entrambi in alleanza con il PD). In
Liguria abbiamo visto una dinamica più articolata. Al voto erano
infatti presenti tre diversi candidati di sinistra: Luca Pastorino
(che riuniva componenti in uscita del PD con il grosso della sinistra
di Rifondazione, Sel e Tsipras), Matteo Piccardi (del PCL) e Antonio
Bruno (AltraLiguria, che riuniva componenti di Tsipras e della
sinistra ligure, in particolare impegnate nella difesa dell’ambiente
e del territorio, critiche con i partiti e la candidatura Pastorino).
Matteo Piccardi ha ottenuto lo 0,8%, la lista del PCL lo 0,6% (ma in
sole due provincie, Genova e Savona; la lista circoscrizionale era
infatti assente ad Imperia e La Spezia). Un buon risultato, quindi,
in particolare in confronto a quello delle altre forze: se Pastorino
ha raccolto un certo consenso (9%), le liste che lo hanno sostenuto
molto meno (4,1% rete a sinistra, 2,5 % la lista Pastorino);
l’AltraLiguria di Bruno (lista e candidato) ha raccolto solo lo
0,7%, dietro al PCL nonostante l’appoggio di diverse forze,
compresa Sinistra Anticapitalista. Un risultato limitato, quindi, per
il numero di realtà in cui siamo stati al voto, oltre che per i
consensi ricevuti. Ma un risultato positivo: pur essendo una piccola
forza, oramai cancellati dai media (anche da quelli di sinistra),
abbiamo dimostrato che è ancora in campo una prospettiva comunista e
rivoluzionaria.
PARTITO
COMUNISTA DEI LAVORATORI