TRANVIERI GENOVA
DINAMICA E BILANCIO DI UNA GRANDE LOTTA
25 Novembre 2013
La
conclusione negativa della lotta dei tranvieri genovesi non cancella
minimamente la straordinaria esperienza che questa vicenda ha
racchiuso. Al contrario ripropone, contro ogni cultura
“movimentista”, il ruolo cruciale della direzione dei movimenti.
UNA
GRANDE LOTTA DI MASSA
La
lotta dei tranvieri genovesi è stata innanzitutto una grande lotta
di massa. La memoria dei lavoratori che l'hanno vissuta è concorde:
mai vi era stata una simile compattezza dei lavoratori dell'azienda.
Neppure negli anni 70. La radicalità della lotta a oltranza ha
unificato per cinque giorni quasi 3000 lavoratori, scavalcando le
differenze di generazione, cultura, appartenenze sindacali. Quelle
differenze che la routine quotidiana e la normale prassi sindacale
concorrono ad approfondire e moltiplicare. La radicalità della lotta
non ha affatto “isolato” i lavoratori “dalla città” come
vuole la vulgata. E' vero l'opposto. Persino la stampa borghese è
stata costretta a riconoscere che il senso comune di larga parte
della città era favorevole agli scioperanti. Nonostante i pesanti
disagi materiali e le campagne odiose di alcune associazioni di
cosiddetti “consumatori”, il grosso dei lavoratori e della
popolazione povera di Genova ha oscillato tra una benevola neutralità
e un'aperta simpatia per la lotta. A differenza di tanti sciopericchi
tradizionali, per lo più “incomprensibili” agli occhi di
cittadini non sindacalizzati e politicizzati- e per questo spesso
vissuti con fastidio o indifferenza- lo sciopero radicale dei
tranvieri è apparso “uno sciopero serio”, con motivazioni chiare
e condivisibili, mirato a vincere, non a partecipare. Da qui un
sentimento diffuso in significativi settori popolari: “ Fanno
bene”, “si fanno rispettare”, dovremmo farlo anche noi”. Un
sentimento che incideva oltretutto sui rapporti di forza: quando
mercoledì 20/11 la massa dei lavoratori ha invaso l'aula del
consiglio comunale impedendo il varo della delibera sulla
privatizzazione, il prefetto ha dovuto spiegare.. al sindaco Doria
che non solo aveva difficoltà “tecniche” a caricare i lavoratori
dentro il palazzo comunale, ma che “il clima in città oggi
sconsiglia l'uso della polizia contro i lavoratori”. Più chiaro di
così.. La radicalità della lotta ha inoltre esercitato
un'attrazione in città presso i lavoratori di altre categorie, a
partire dalle minicipalizzate. Più di un centinaio di lavoratori
dell'azienda rifiuti ( AMIU) e dell'azienda di manutenzione delle
strade (ASTER), anch'essi minacciati dalle privatizzazioni, sono
subito accorsi a solidarizzare con i tranvieri quando hanno occupato
Palazzo Tursi. I burocrati sindacali hanno dovuto sudare sette
camicie nei giorni successivi per arginare i rischi di contagio nelle
municipalizzate..Mentre l'annuncio di Letta sulla privatizzazione
Fincantieri, gettava nuova benzina sul fuoco. Il rischio di una
saldatura fra i tranvieri e altri settori operai, è divenuta non a
caso, mercoledì e giovedì, la principale preoccupazione della
stampa borghese cittadina.
LE
PAURE DELLA BORGHESIA
A
partire dal terzo giorno di sciopero la lotta dei tranvieri genovesi,
sino ad allora “silenziata” , ha fatto il suo ingresso nello
scenario mediatico nazionale. E' un passaggio importante della
vicenda. In una logica di “mercato dell'informazione” (perchè
l'informazione è mercato come tutto il resto nella società
borghese) decolla improvvisamente la concorrenza tra diversi canali
televisivi e talk show nella rappresentazione della vicenda Genova
come metafora della “disperazione sociale” e dei rischi di
“rivolta”. Il che ha amplificato enormemente il fascio di luce
sulla vicenda moltiplicando proprio quei rischi di emulazione che si
volevano esorcizzare, a partire dal settore del trasporto locale: uno
dei pochissimi settori che ha registrato un incremento complessivo
delle ore di sciopero nel 2012/2013; un settore investito in ogni
città da privatizzazioni e vertenze, e che proprio a Roma è oggi
attraversato da processi di radicalizzazione strisciante di settori
di massa ( Atac). Il rischio contagio andava peraltro al di là del
trasporto locale, nella stessa percezione della borghesia. “Rischio
Genova” ( Corriere) “La rivolta di Genova”( Il Giornale) “La
miccia di Genova” (Unità): così titolavano in prima pagina i
giornali di giovedì 21/11 a caratteri cubitali. Non si riferivano ai
soli ferrotranvieri. Ma più si è elevato col passare dei giorni il
livello dello scontro e delle sue potenzialità di richiamo, più è
apparso drammaticamente evidente lo scarto tra la radicalità della
lotta, e l'assenza di una direzione adeguata a quel livello di
radicalità. Una contraddizione che le diverse burocrazie sindacali
hanno usato per trovare la (propria) via d'uscita dalla vicenda.
IL
RUOLO DELLE BUROCRAZIE SINDACALI
L'AMT
genovese vede una presenza largamente maggioritaria del sindacato
autonomo legato alla FAISA/CISAL ( oltre 1000 iscritti) , con la CGIL
in seconda posizione ( circa 500 iscritti). Gli altri sindacati sono
irrilevanti. CISAL e CGIL avevano gestito insieme l'accordo bidone
del 7 maggio 2013: quello che prevedeva il taglio di 1400 euro l'anno
in busta paga più la rinuncia a 5 giorni di ferie in cambio della
“promessa” difesa dell'azienda pubblica. Un accordo approvato dal
54% dei lavoratori: il che significa che una parte consistente della
stessa base sindacale aveva votato contro l'accordo. Quando Doria ha
stracciato l'accordo sottoscritto, umiliando le stesse burocrazie
sindacali, la reazione radicale dei lavoratori ha messo gli apparati
in grande difficoltà. Se avessero sconfessato la rivolta, ne
avrebbero perso il controllo, compromettendo una credibilità già
logorata. Hanno dunque preferito un'altra strada: far buon viso a
cattivo gioco, assecondare inizialmente la dinamica della lotta,
contenere il più possibile le sue spinte, per provare a recuperare
il bandolo della matassa. Così è stato. Le due enormi assemblee di
venerdì 22/11 e sabato23/11 sono state entrambe la cartina di
tornasole dell'evoluzione del movimento e della manovra degli
apparati contro di esso. Con una dinamica molto diversa tra loro.
L'ASSEMBLEA
DI VENERDI' 22: L'EVOLUZIONE DEL SENTIMENTO DI MASSA
L'assemblea
di venerdì 22/11 alla storica Chiamata del porto è stata
l'assemblea della radicalità della lotta e della sua compattezza.
Compattezza non significa affatto omogeneità. Nella massa dei
lavoratori si affacciava, com'è fisiologico, un'ampia eterogeneità
di linguaggi e culture, spesso tra loro sovrapposte. Da un lato si
manifestava una autorappresentazione di “categoria”, gelosa dei
propri confini professionali, e segnata da una diffidenza molto
marcata verso la dimensione stessa della “politica”: lo
striscione messo in bella mostra in sala dal sindacato autonomo “
Né rossi, né neri, solo tranvieri” rifletteva e coltivava questo
lato della psicologia di massa.
Ma nella stessa assemblea si affacciavano, contradditoriamente, ben altri riferimenti e sentimenti. “Oggi non è il 23 Novembre, ma il 30 Giugno 60. La storia ricomincia da Genova” esclamava un operaio nel suo intervento tra applausi scroscianti. “Questo non è uno sciopero, ma una rivoluzione” gridava un altro operaio che sedeva alla presidenza, anch'egli applaudito. Gli attestati di solidarietà che provenivano da fuori Genova erano salutati con entusiasmo, non con diffidenza o distacco: “La scintilla dell'Italia siamo noi” diventava non a caso proprio venerdì uno slogan di massa dell'assemblea. La stessa accoglienza calorosa riservata al nostro intervento di partito rivelava che la crosta del rifiuto dei “politici” non era affatto impermeabile. In realtà la sensazione emergente e diffusa nell'assemblea di venerdì era quella di essere entrati in una dimensione ben più grande di una vicenda di categoria. Ciò che isolava le pulsioni più arretrate e “corporative” e segnava una maturazione della coscienza di classe. Per questa stessa ragione le burocrazie sindacali azionavano la prima frenata . I loro interventi conclusivi in assemblea erano indicativi. Il massimo esponente della CGIL, dopo aver lodato la lotta, affermava che “ora si tratta di trovare subito uno sbocco” ( “ringrazio il compagno Ferrando, ma non si pone la necessità di casse di resistenza”). Il capo della CISAL dichiarava:” Non dobbiamo cambiare il mondo ma un azienda”, “ I politici portino pure la propria solidarietà ma non ingeriscano”, “la lotta è dei tranvieri, non di tutto il mondo del lavoro”. Era il tentativo di far leva sul lato arretrato della coscienza per bloccare il suo sviluppo politico. La frenata aveva anche un risvolto di piazza. Il corteo del pomeriggio voleva marciare sulla prefettura, dove era annunciato un incontro sindacale con le controparti. I dirigenti sindacali non gradivano, perchè non volevano intralci: “ Alla prefettura andiamo noi, è inutile che voi restiate per strada, vi informeremo sull'esito”. Il tentativo di smobilitazione non ebbe alcun esito. I lavoratori non volevano lasciare la strada, perchè volevano continuare a sentirsi diretti protagonisti della propria lotta, perchè diffidavano dei dirigenti sindacali, e perchè anche la strada aveva consolidato ai loro occhi una unità di lotta che non volevano disperdere. Dunque il corteo dei lavoratori ha “accompagnato” i burocrati alla prefettura, contro la loro volontà. Ma cresceva tra gli operai il disorientamento e la confusione sulle prospettive. Mentre si affacciavano le prime tensioni tra i lavoratori.
Ma nella stessa assemblea si affacciavano, contradditoriamente, ben altri riferimenti e sentimenti. “Oggi non è il 23 Novembre, ma il 30 Giugno 60. La storia ricomincia da Genova” esclamava un operaio nel suo intervento tra applausi scroscianti. “Questo non è uno sciopero, ma una rivoluzione” gridava un altro operaio che sedeva alla presidenza, anch'egli applaudito. Gli attestati di solidarietà che provenivano da fuori Genova erano salutati con entusiasmo, non con diffidenza o distacco: “La scintilla dell'Italia siamo noi” diventava non a caso proprio venerdì uno slogan di massa dell'assemblea. La stessa accoglienza calorosa riservata al nostro intervento di partito rivelava che la crosta del rifiuto dei “politici” non era affatto impermeabile. In realtà la sensazione emergente e diffusa nell'assemblea di venerdì era quella di essere entrati in una dimensione ben più grande di una vicenda di categoria. Ciò che isolava le pulsioni più arretrate e “corporative” e segnava una maturazione della coscienza di classe. Per questa stessa ragione le burocrazie sindacali azionavano la prima frenata . I loro interventi conclusivi in assemblea erano indicativi. Il massimo esponente della CGIL, dopo aver lodato la lotta, affermava che “ora si tratta di trovare subito uno sbocco” ( “ringrazio il compagno Ferrando, ma non si pone la necessità di casse di resistenza”). Il capo della CISAL dichiarava:” Non dobbiamo cambiare il mondo ma un azienda”, “ I politici portino pure la propria solidarietà ma non ingeriscano”, “la lotta è dei tranvieri, non di tutto il mondo del lavoro”. Era il tentativo di far leva sul lato arretrato della coscienza per bloccare il suo sviluppo politico. La frenata aveva anche un risvolto di piazza. Il corteo del pomeriggio voleva marciare sulla prefettura, dove era annunciato un incontro sindacale con le controparti. I dirigenti sindacali non gradivano, perchè non volevano intralci: “ Alla prefettura andiamo noi, è inutile che voi restiate per strada, vi informeremo sull'esito”. Il tentativo di smobilitazione non ebbe alcun esito. I lavoratori non volevano lasciare la strada, perchè volevano continuare a sentirsi diretti protagonisti della propria lotta, perchè diffidavano dei dirigenti sindacali, e perchè anche la strada aveva consolidato ai loro occhi una unità di lotta che non volevano disperdere. Dunque il corteo dei lavoratori ha “accompagnato” i burocrati alla prefettura, contro la loro volontà. Ma cresceva tra gli operai il disorientamento e la confusione sulle prospettive. Mentre si affacciavano le prime tensioni tra i lavoratori.
UN
ACCORDO NEGATIVO CONTRO LAVORATORI E SERVIZIO. L'ASSENZA DI UNA
PROPOSTA ALTERNATIVA DI DIREZIONE DELLA LOTTA
Nella
notte di venerdì , sindacati, Comune, Regione siglano l'accordo.
L'accordo è negativo. Certo non prevede decurtazioni salariali come
l'accordo di maggio, perchè nei nuovi rapporti di forza Doria non
avrebbe potuto permetterselo, e soprattutto gli apparati non
avrebbero potuto gestirlo. Ma l'accordo scarica il risanamento
aziendale sul taglio delle linee collinari, con un colpo annunciato
sia agli organici sia al servizio ( a proposito di “interessi
dell'utenza”): con lo scopo di rendere l'azienda più appetibile in
prospettiva per futuri compratori o gestori. Il bando di gara
regionale per il 2015 va esattamente in questa direzione. Altro che
ritiro della privatizzazione. Ma al di là dell'aspetto sindacale,
l'accordo ha soprattutto una finalità politica: spezzare la dinamica
di una lotta sfuggita di mano, bloccare sul nascere una sua
trascrescenza locale e nazionale, ripristinare la “normalità”.
Il problema era far passare l'accordo nell'assemblea dei lavoratori
di sabato 23/11. Non era facile. Le burocrazie hanno dovuto investire
nell'impresa tutto il proprio mestiere, acquisito in tanti anni di
esperienza. Tre gli argomenti spesi per la chiusura della lotta. Il
primo era la valorizzazione di merito dell'accordo:” Abbiamo
ottenuto tutto, cos'altro volevamo ottenere?”. Il secondo era più
consistente e insidioso:” Non abbiamo alternativa. Non possiamo
continuare così. Se diciamo no la città si rivolterà contro di
noi. E poi, quale sarebbe la prospettiva?”. Il terzo è il più
ipocrita: “ Siamo rimasti soli. Gli altri lavoratori non ci hanno
seguito. Potevano, ma non l'hanno fatto. Solo noi ci siamo spesi, noi
tranvieri, adesso dobbiamo chiudere.” I burocrati puntavano a
piegare la fiducia della massa nella propria forza, a utilizzare
diffidenze corporative verso altre categorie, a far leva su
quell'ombra lunga della rassegnazione e delle sconfitta che una
grande lotta cercava di scrollarsi di dosso. Il punto di forza degli
apparati non è stato il merito dell'accordo, che ha abbindolato ben
pochi, ma l'apparente assenza di una prospettiva alternativa. Tanti
lavoratori non volevano cedere. Tanti interventi in assemblea avevano
demolito, se ve ne era bisogno, i contenuti dell'accordo. Ma la
domanda restava: se si respinge l'accordo, cosa si fa? Un
interrogativo senza risposta alimentava confusione e paura. E
diventava il corpo contundente della burocrazia per piegare la lotta.
UN
ALTRA POSSIBILE DIREZIONE DI MARCIA
Sarebbe
stato necessario dare risposta a quell'interrogativo, contrapponendo
alla burocrazia una proposta alternativa in assemblea che rovesciasse
uno per uno gli argomenti, e indicasse un'altra strada possibile: non
l'arretramento della lotta ma un salto in avanti delle sue forme di
organizzazione, di democrazia operaia, di relazione di classe con gli
altri lavoratori. La prima questione era la formazione della cassa di
resistenza. Una lotta prolungata ha bisogno di coprirsi le spalle
economicamente. Soprattutto se alla perdita del salario si aggiungono
le multe della prefettura. Da tutta Italia erano giunte disponibilità
generose a contribuire finanziariamente alla lotta da parte di tanti
lavoratori, non solo peraltro del trasporto locale. Gli stessi
burocrati venerdì in assemblea, nel mentre negavano la necessità di
una cassa di resistenza, annunciavano che avevano dovuto aprire un
conto corrente pubblico per incanalare offerte d'aiuto che si
andavano moltiplicando. Occorreva incoraggiare e dare una forma
organizzata a questa spinta. L'assemblea poteva proporre
pubblicamente una cassa di resistenza nazionale, a sostegno della
lotta e della sua generalizzazione. La risonanza dell'iniziativa
sarebbe stata enorme, ed anche i suoi riflessi economici. Peraltro le
casse di resistenza esistono in altri paesi a copertura di possibili
lotte prolungate. Quale migliore occasione della lotta a oltranza dei
tramvieri di Genova per popolarizzare e concretizzare questa
necessità? Ma nessun soggetto sindacale, per quanto critico, ha
avanzato la proposta in assemblea. Né la pone sul piano nazionale.
La seconda questione riguarda il rapporto con altri lavoratori. Nulla
era più falso del cosiddetto “isolamento” dei tramvieri di
Genova. Da due giorni proprio la lotta a oltranza di Genova iniziava
ad esercitare un attrazione sui lavoratori del trasporto locale in
diverse città. Un gruppo di autoferrotranvieri romani, venuti a
Genova a proprie spese, informava dello stato di agitazione della
categoria nella propria città, chiedendo all'assemblea genovese di
continuare la lotta, facendo da traino. Le stesse direzioni sindacali
nazionali- del tutto assenti nelle giornate di Genova- fiutavano
l'aria e in fretta e furia proclamavano uno sciopero della categoria
di..4 ore..per il 5 Dicembre, per cercare di disinnescare possibili
trascinamenti della lotta genovese, e dirottare le spinte su un
binario inoffensivo. Anche a Genova l'attrazione della lotta
cresceva. Una lavoratrice dell'APT provinciale interveniva in
assemblea per dire ai tranvieri:” Grazie a voi per la prima volta
dopo anni abbiamo fatto un assemblea nella nostra azienda per
organizzare lo sciopero. Non mollateci proprio ora”. Era l'esatto
capovolgimento dell'argomento dei burocrati. La verità è che il
solo prolungamento della lotta a lunedì avrebbe potuto richiamare un
salto di propagazione della sua dinamica, a tutto vantaggio degli
stessi tranvieri di Genova. Per questo era necessario proporre che
l'assemblea dei tranvieri rivolgesse un pubblico appello alla lotta
generale, a partire dagli autoferrotranvieri. E che a Genova stessa
si organizzasse un intervento diretto dei lavoratori scioperanti AMT
presso le rimesse di AMIU, APT, ASTER, per incoraggiare l'estensione
della lotta contro le privatizzazioni a difesa del lavoro. Una simile
scelta, sotto i riflettori nazionali, avrebbe rappresentato un
fattore di richiamo formidabile ( e perciò stesso oltretutto.. di
massima pressione sulle controparti locali). La terza questione
riguardava l'organizzazione democratica della lotta. Alla AMT non c'è
neppure la RSU. Il sindacato autonomo si è sempre opposto alla sua
costituzione, e la CGIL si è adattata. In AMT le burocrazie fanno da
sempre il bello e cattivo tempo senza neppure una parvenza formale di
rappresentanza democratica per quanto distorta dei lavoratori. La
stessa trattativa nei giorni della lotta è stata gestita dalle
burocrazie nel modo più truffaldino. Mirabile il passaggio di
venerdì notte. Siccome gli apparati temevano l'impatto dell'accordo
sull'assemblea del giorno dopo, hanno deciso di associare
all'incontro decisivo in prefettura un lavoratore aggiuntivo per ogni
sigla sindacale. Naturalmente i fiduciari eletti dai burocrati (e non
dall'assemblea), sono stati i primi a lodare l'accordo in assemblea
quali presunti “garanti” della base. In realtà erano solo i
garanti dei loro capi contro i lavoratori. A questa gestione della
lotta poteva essere contrapposta dall'inizio una soluzione
alternativa: la elezione diretta da parte dell'assemblea di una
rappresentanza democratica dei lavoratori che partecipasse pienamente
al negoziato con la controparte. Dopo il tradimento conclamato dei
burocrati, questa proposta poteva prendere la forma di un vero
comitato di sciopero eletto dall'assemblea quale direzione
alternativa della lotta e della sua continuità. Un comitato di
sciopero è uno strumento che appartiene alla storia migliore del
movimento operaio. Ma nessuno ha avanzato questa proposta.
L'ASSENZA
DI UNA PROPOSTA ALTERNATIVA SPIANA LA STRADA AI BUROCRATI
In
compenso, piccoli sindacati “critici” hanno svolto in assemblea
un ruolo negativo e subalterno. Che ha facilitato le burocrazie.
Il
sindacato Orsa appena costituito in azienda è intervenuto per dire
che l'accordo doveva essere emendato su un punto particolare, quello
del subappalto: ma si poteva risolvere il problema allargando il
successivo incontro con la controparte anche.. all'Orsa.
I
sindacati di base, molto deboli in azienda, sono intervenuti per
proporre il rinvio del voto sull'accordo a Gennaio. Nel frattempo si
sarebbe dovuti arretrare sul terreno della “lotta articolata”. I
loro dirigenti provinciali confidavano riservatamente che “ La
lotta a oltranza è stata una follia sin dall'inizio, sono possibili
solo lotte articolate”. (Di cui nessuno si sarebbe accorto).
La
verità è che i soggetti critici si sono essenzialmente preoccupati
del proprio ruolo e di qualche tessera in più, più che della
prospettiva di lotta del movimento reale e della sua vittoria. Il
risultato d'insieme è stato uno solo. Un accordo respinto dalla
coscienza dei più è “passato” per l' assenza di una chiara
alternativa di prospettiva e di azione. Un largo settore di giovani
contrario a un accordo che umiliava 5 giorni di lotta, si è
contrapposto spontaneamente ai burocrati, ma non ha trovato un polo
di riferimento in assemblea che potesse conquistare l'egemonia. Una
(risicata) maggioranza reale, disorientata e delusa, dava un “sì”
sfiduciato, vivendolo come una sconfitta. I burocrati completavano
l'opera mettendo al sicuro il (proprio) risultato col rifiuto di
formalizzare e conteggiare il voto. La rissa tra lavoratori è stato
l'epilogo amaro di una vicenda che aveva visto proprio nell'unità
operaia la sua espressione migliore.
Le
burocrazie nazionali esprimono soddisfazione. Bonanni ha dichiarato
che “l'accordo di Genova è un esempio da generalizzare a tutto il
trasporto locale”. Comprensibile. Susanna Camusso ha sentito
l'esigenza di cantare vittoria: “ La positiva conclusione della
vicenda di Genova dovrebbe spiegare a tutta la politica il ruolo
prezioso e insostituibile del sindacato”. Ha ragione. La politica
borghese deve ringraziare il ruolo della burocrazia CGIL, e non solo.
LE
LEZIONI DI UN BILANCIO POLITICO A SINISTRA LA SCELTA DEL PARTITO
COMUNISTA DEI LAVORATORI
La
sinistra politica nelle sue diverse espressioni è stata assente
dalla lotta di Genova.
SEL
si è trovata col suo sindaco Doria e i propri assessori dall'altra
parte della barricata, finendo col denunciare la lotta radicale di
massa come “squadrismo”. E il governatore Vendola tanto più oggi
ha davvero altro a cui pensare...
Rifondazione
risulta non pervenuta, impegnata in un congresso crepuscolare che
deve decidere della sorte della segreteria dell'ex ministro Ferrero.
Nel frattempo continua a far parte della maggioranza regionale con PD
e UDC, votando tagli a sanità e servizi. Al fianco di quel Burlando
che nel 97 da ministro dei trasporti, col voto del PRC, varò un
record di privatizzazioni, con ricadute pesanti proprio su Genova.
Infine
quei settori della sinistra antagonista che il 19 ottobre a Roma
salutavano come “sollevazione” una manifestazione sulla casa, non
si sono occupati della sollevazione reale dei tranvieri di Genova e
delle sue reali potenzialità di contagio. Nulla poteva essere loro
culturalmente più estraneo.
Il
PCL ci ha messo invece la faccia. Non avevamo una presenza diretta
tra i lavoratori del trasporto urbano genovese, a differenza che a
Roma, a Firenze e in altre città, e quindi non potevamo incidere
sulla dinamica interna del confronto tra lavoratori nei giorni
cruciali delle decisioni. Ma siamo stati l'unico partito che è stato
presente sin dall'inizio in tutti i passaggi della lotta, con i
propri militanti e i propri volantini. L'unico partito presente nella
lotta di Genova con la propria rappresentanza nazionale. L'unico che
ha potuto intervenire nella grande assemblea pubblica della chiamata
del porto. L'unico che lavora a valorizzare in tutta Italia questa
esperienza di lotta radicale.
Se abbiamo investito in questa lotta tanta attenzione e presenza, a differenza di altri, non è affatto casuale. Né è solo per il legame che ci unisce agli interessi immediati della classe operaia. E' perchè a differenza di altri ci battiamo realmente per una ribellione di massa, nella prospettiva rivoluzionaria di governo dei lavoratori: nel mondo reale della lotta di classe , fuori da ogni logica di piccolo cabotaggio. L'esperienza di Genova insegna quanto sia essenziale la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio.
Se abbiamo investito in questa lotta tanta attenzione e presenza, a differenza di altri, non è affatto casuale. Né è solo per il legame che ci unisce agli interessi immediati della classe operaia. E' perchè a differenza di altri ci battiamo realmente per una ribellione di massa, nella prospettiva rivoluzionaria di governo dei lavoratori: nel mondo reale della lotta di classe , fuori da ogni logica di piccolo cabotaggio. L'esperienza di Genova insegna quanto sia essenziale la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio.
Solo
una dinamica di lotta di massa radicale può seriamente preoccupare
la borghesia. Ma solo una direzione alternativa della lotta può
evitare che la mobilitazione più radicale e generosa venga dispersa
e sconfitta dalle burocrazie: e non c'è costruzione di una direzione
alternativa di lotta fuori da un progetto complessivo anticapitalista
che raccolga e organizzi attorno a sé la migliore avanguardia della
classe operaia e dei movimenti, e riconduca ogni lotta a una
prospettiva di rivoluzione. Le ragioni del Partito Comunista dei
Lavoratori e del suo sviluppo sono state riproposte dalla vicenda di
Genova in tutta la loro straordinaria attualità.
Marco Ferrando, portavoce nazionale del PCL